Ventitrè anni appena e una carriera che comincia
già ad assumere un certo peso specifico, con quattro album ufficiali,
Faye Webster è il prototipo perfetto della giovane autrice di questi
anni: eclettica educazione artistica, un’attività parallela di apprezzata
fotografa nel campo pubblicitario e musicale, gusti sonori che crescono
nel subbuglio hip hop della scena di Atlanta, suo luogo di origine, e
una famiglia che la educa alla musica fin da bambina, assorbendo anche
le influenze della tradizione folk (la madre suonatrice di violino e chitarre,
il nonno musicista bluegrass). Il debutto discografico a soli sedici anni,
il vero exploit però nel 2019 grazie all’album Atlanta Millionaires
Club, con una copertina che colpisce per il “cattivo gusto” e una
musica assai più elegante, che media fra scrittura indie folk, tentazioni
pop e modernità r&b.
Faye non rinnega il passato, le prime esperienze musicali in un collettivo
hip hop, l’amicizia con il rapper Lil Yatchy, suo compagno di scuola,
ma poi intraprende la sua strada, che è in fondo legata alla canzone d’autore
americana, giusto spruzzata da una sensibilità più attuale. La fragilità
delle confessioni del nuovo I Know I'm Funny Haha è costruita
su queste dinamiche, un’eleganza sussurrata che attraversa l'intero spettro
degli undici brani, adottando una voce indie pop ma declinandola con strumenti
come pianoforte, chitarre acustiche e pedal steel (Matt “Pistol” Stoessel)
ed effluvi vagamente jazzy, quando invece ti aspetteresti colpi di synth
e stratificazioni elettriche più consone al genere. L’achimia funziona
in partenza e attira nel passo fluttunate di Better Distractions,
nel velluto di Sometimes e tra gli
slanci melodici quasi californiani che sottendono la melodia della stessa
I Know I'm Funny Haha. Soffice, dolcissima e colloquiale nel tono,
Faye Webster sceglie un mood sonoro e non lo molla fino alla fine, così
giunti ai sospiri di In a Good Way,
tra i momenti più delicati, ci accorgiamo anche dei limiti di un album
che non esce mai da un’atmosfera, da un’idea di suono che sulla distanza
risulta estenuante.
La pedal steel è un elemento esotico e di fascino Americana, sebbene l’anima
delle canzoni della Webster sia troppo ricercata per dirigersi verso la
tradizione tout court: non un male in assoluto, sia chiaro, ma un certo
artefatto languore, quello che risale tra le volute di steel e organo
in Kind Off, nel mantello di archi della flebile A Stranger
o tra i battiti lounge pop di A Dream with a Baseball Player, con
il suo contorno di morbidi sax, a lungo andare sembra trascinare l’ascolto
nell’indolenza. Al rush finale di Overslept (con la partecipazione
alla seconda voce di Mei Ehara), altro tenue bozzetto indie pop, e dell’acustica
di Hall of Me si arriva francamente un po’ stremati. Una certa
indifesa emotività è la cifra stilistica di molte giovani songwriter contemporanee:
non soprende che Faye Webster ne sia coinvolta a pieno titolo, ma reggere
un album intero è un’altra questione.