La prima volta che ho sentito Julien Baker
era il 2016, era una delle artiste che omaggiava Elliott Smith nel disco
tributo Say Yes!, e la sua versione di Ballad of Big Nothing
colpiva subito per espressività, pur nella sua semplicità di arrangiamenti.
L’anno prima era uscito il suo album di debutto, Sprained Ankle,
disco che grazie ad un forte passaparola era diventato uno dei titoli
più importanti dell’annata. Complimenti le erano arrivati da mondi di
ascoltatori anche molto diversi tra loro, e bene o male il secondo capitolo
Turn Out The Lights confermava il suo stile semplice ma intenso,
senza troppi orpelli in sede di arrangiamento. Ma Little Oblivions,
fin dall’iniziale Hardline, fa capire che è tempo di svolte.
La Baker viene da una lunga pausa di riflessione, durante la quale ha
comunque trovato tempo per qualche collaborazione, ma in cui si è dovuta
anche riprendere dai guai della depressione, con conseguenti problemi
di dipendenza da farmaci. Un elemento importante per capire come mai dallo
scarno sound dei suoi primi album, si passa a questo vero e proprio muro
di tastiere e chitarre che lascerebbero intendere l’apertura a svariate
collaborazioni in studio, se non fosse che lei resta invece l’unica musicista
presente, eccezion fatta per qualche intervento (anche strumentale) in
post-produzione dell’ingegnere del suono Calvin Lauber. È probabile che
la Baker abbia ritenuto queste dodici canzoni fin troppo dolorosamente
personali anche solo per condividerle con altre sensibilità musicali,
ma è innegabile che il risultato appaia ancor più strabiliante se pensato
come il risultato del lavoro di una one-woman-band.
E forse anche involontariamente il disco ha la struttura di un concept
album, che da riflessioni sulle proprie difficoltà a venire a patti con
il mondo che la circonda e le proprie debolezze (Heatwave, Relative
Fiction), si apre sempre più a riflessioni sul modo in cui
la gente si relaziona con chi come lei mostra evidenti difficoltà (Favor,
Song of E). Quasi che la Baker abbia voluto farci provare il suo
percorso, che dal fondo toccato e ben raccontato nella parte centrale
dell’album (dalla pessimistica visione dell’amore come possibile ancora
di salvezza di Bloodshot ai non troppo
velati accenni all’autolesionismo della stessa canzone e di Ringside)
abbia comunque voluto chiudere il disco con qualche spiraglio di ottimismo.
Unica osservazione che mi permetto di fare è che da un punto di vista
stilistico questa nuova veste da pop etereo che abbandona con decisione
gli elementi folk (il piano sostituisce la chitarra acustica come elemento
base) finisce un po’ per farla confondere con altre artiste contemporanee
che si muovono sullo stesso terreno (Angel Olsen, ma anche l’ultima fatica
di Laura Veirs è assimilabile per i suoni), ma sono forse sottigliezze
che per ora spariscono davanti ad un disco che mostra come ancora si possa
usare la musica come terapia, con la triste constatazione che non siamo
ma veramente gli unici a vivere nel dolore (gli ultimi versi del disco
sono “Sono rimasta delusa nello scoprire quanto tutti mi assomiglino”).