Così come esistono liste
di dischi ispirati alla dolorosa fine di una relazione (per esempio Blood
On The Tracks di Bob Dylan, per dirne uno dei più famosi), si potrebbe
fare anche un elenco di album nati in seguito alla rinascita dopo grossi
problemi di alcolismo (quelli sui problemi di droga sono un altro capitolo,
e forse ben più corposo). Saint Cloud potrebbe essere uno
di questi, album prodotto da un’artista di cui non ci eravamo ancora occupati
su queste pagine, ma che vanta ormai una corposa carriera discografica.
Katie Crutchfield infatti, soprannominata artisticamente Waxahatchee
dal nome di un fiume dell’Alabama, tra il 2008 e il 2011 aveva prodotto
due album con la band P.S.Eliot, creata con la sorella gemella Allison
Crutchfield, sigla poi riesumata nel 2016 per un tour a supporto di una
raccolta. Dal 2012 ha iniziato a pubblicare con il nuovo nickname, arrivando
ora al quinto album dopo American Weekend (2012), l’acclamato Cerulean
Salt (2013), Ivy Tripp (2015), e il sofferto Out in the
Storm (2017).
Proprio quest' ultimo titolo, prodotto dall’esperto John Agnello, era
un disco molto maturo ma anche molto tormentato, e infatti nel tour successivo
Katie ha avuto non pochi problemi per l’eccessivo consumo di alcool. Un
vizio che l’ha portata a fermarsi per un anno per rigenerarsi, aiutata
dal nuovo fidanzato Kevin Morby (con il quale ha anche pubblicato un paio
di brani), e concepire così da sobria questo Saint Cloud. Disco
della rinascita, ma anche nuovo punto di arrivo di uno stile di cantautorato
femminile portato alla sperimentazione che qui, a parte l’interlocutorio
incipit di Oxbow, si fa canzone mainstream-roots pura con una Can’t
Do Much che ricorda molto le migliori canzoni di Kathleen Edwards.
Un leggero cambio di direzione che forse non tutti i suoi fans della prima
ora apprezzeranno, visto che un brano come Lilacs, con il suo ritornello
così radiofonico, arriva quasi ad invadere il campo della reginetta del
country-che-piace-anche-al-mondo-indie Kacey Musgraves.
Ma la pasta di cui è fatta Katie è sicuramente più spessa, come dimostrano
brani più strutturati quali Fire o
la title-track finale, ma è innegabile che il giro puramente rurale di
The Eye si accasa in territori musicali
al riparo da coraggiose sperimentazioni. Dal lato nostro notiamo però
che con questo album, se Waxahatchee perde forse qualcosa delle sue peculiarità
giovanili, sicuramente guadagna in statura di autrice, quasi che a soli
30 anni e con già una lunga storia da raccontare, Katie senta ormai il
bisogno di parlare chiaro come fa in Hell, racconto del suo recente
inferno da alcolizzata. Certo, non si era troppo abituati a sentirla cantare
su un giro semplice, quasi alla John Fogerty, come Witches,
o a vederla seguire le orme del combat-folk delle Indigo Girls in War,
ma un brano intenso quale Arkadelphia,
tesa dark-folk-song che potrebbe addirittura ricordare lo Springsteen
più recente, penso che metterà tutti d’accordo sulla sua statura.
Saint Cloud potrebbe davvero essere uno dei dischi da heavy rotation
di questo 2020.