Non si giudica un libro (e forse nemmeno un disco)
dalla copertina, recita la saggezza popolare. E’ vero però che Laura
Veirs, con quella posa di studiata vulnerabilità che campeggia sulla
cover di My Echo, sembra voler da subito predisporre noi
ascoltatori ad accogliere la natura intima, confessionale, dell’esperienza
che ci aspetta una volta fatta scendere la puntina sui solchi del disco
(pare proprio che le vendite dei vinili abbiano ormai superato quelle
dei cd, quindi ci perdonerete la riesumazione di questo e altri consunti
cliché della critica musicale d’antan). Anche senza conoscere i travagli
personali che hanno accompagnato l’ultimo anno della vita della folksinger
di Colorado Springs (il solito banale, ma non per questo meno straziante,
divorzio dal marito e produttore Tucker Martine), non si fa fatica a cogliere
tracce di malessere nelle liriche che la Veirs ha affidato a questi dieci
nuovi brani.
Tali premesse potrebbero fare di My Echo il tradizionale "breakup
album" ma in realtà lo sguardo si allarga a tematiche più ampie,
ancorché sempre vissute con una partecipazione emotiva che non si perita
di mettere a nudo l’anima dell’autrice (secondo cliché). La quale ha trovato
modo di definire i temi del suo disco nei seguenti termini: “Queste
canzoni sono permeate dall’invecchiamento, dai confini della vita domestica,
dal nostro governo oppressivo e dalla minaccia dell’Apocalisse”. Nient’altro?,
verrebbe da chiedere. Al di là delle ambizioni dichiarate, non si può
non riconoscere la bravura della Veirs nel mantenere tutto questo dentro
il perimetro di una forma-canzone accogliente, che mette a proprio agio
con melodie sussurrate, arrangiamenti sognanti (si sprecano gli archi)
e una struttura familiare e immediata che deriva da un’interpretazione
non rigorosa della scrittura folk (nota a margine: impossibile non notare
come il suo modo di cantare con il tempo ricordi sempre più quello di
Suzanne Vega).
Paradossalmente, parte dei meriti del risultato finale vanno ascritti
anche questa volta (l’ultima, probabilmente) al lavoro in sala di registrazione
dell’ex marito, che risulta produttore anche di questo lavoro, così com’era
accaduto in 10 degli 11 album in studio della Veirs (giusto per far comprendere
quanto sia difficile distinguere i meriti di ciascuno, tanto era diventata
strutturale la loro collaborazione). Non è difficile intuire la mano di
Martine dietro certe scelte. Prendiamo il singolo Another
Space and Time: un pigro ritmo da bossanova rimasticata in
chiave indie-pop per cullare un racconto di utopia ecologista in cui “la
California non brucia e il livello dei mari non si alza” e “Internet è
morto e noi abbiamo trovato la pace mentale”. O Memaloose
Island, che affida a una parte strumentale in odore di exotica
(gli svolazzi pseudohawaiiani della pedal steel) un messaggio di timida
speranza (“I was glad to be alive”). O, ancora, la facile ricetta pop-rock
di Burn too Bright o il twang futuristico di Turquoise Wall.
Il resto scopritelo da soli, perché ogni brano, anche quelli di poco più
di due minuti, rivela una cura speciale nel modo in cui è stato confezionato.
Se questo è davvero il punto di arrivo di un percorso ventennale per questa
autrice, lo dirà il tempo. Certo non è un brutto modo per chiudere una
pagina, aspettando di scrivere un nuovo capitolo (e con quest’ultimo cliché,
chiudiamo).