Feral: ferino, selvaggio
come una bestia, come può esserlo anche, soprattutto il rock’n’roll, sebbene
qui tradotto in una musica che si fa a tratti più estatica, sospesa fra
schiette pulsioni garage e luccicanti intrecci pop chitarristici. È la
tradizione di una terra lontana, che continua ad offrirsi alla causa di
chi sa far collidere elettricità e sentimento: gli australiani non deludono
mai, sanno in che direzione si è mossa la storia del loro underground
musicale e ne portano avanti la lezione con rinnovata energia. È il caso
della creatura RVG, abbreviazione che sta per Romy Vager Groug,
dall’idea nata intorno alla vocalist e autrice transgender del gruppo,
formatosi nel 2015 nei sobborghi di Melbourne e presto arrivato alle attenzioni
internazionali dell’americana Fire records.
L’album che ha fatto da apripista è A Quality of Mercy del 2017,
inciso dal vivo in un piccolo club locale, senza pubblico ma conservando
il sentimento e l’intesa immediata di un’esibizione live, forse l’approccio
più interessante per le radici stesse della band. Feral
giunge a due anni di distanza confermando le qualità del quartetto, lì
dove la produzione in studio di Victor Van Vugt (già al lavoro con Nick
Cave e PJ Harvey) concede qualche lustrino in più, giusto uno scintillio
che non cancella tuttavia l’attacco rock essenziale della formazione,
annunciato dall’incalzante Alexandra.
Tutto si coalizza - dalla trascinante voce di Romy, carismatica e inusuale
nel timbro, al misurato vortice di chitarre e sezione ritmica - nella
direzione dei grandi maestri dell’aussie rock sorti negli anni Ottanta:
si legge in controluce quel passaggio eccitante dalla stagione post punk
alla riscoperta dei suoni della psichedelia e del folk elettrico, che
si sarebbe tradotto in strani, eccitanti ibridi chiamati curiosamente
college rock e jangle pop, nient’altro che comode sigle per riassumere
un’estetica musicale che accomunava terre lontane, da Athens a Sidney,
da Los Angeles a Melbourne. Asteroid, Christian Neurosurgeon,
l’arrembante Little Sharky & The White Pointer Sisters, il volteggiare
di Help Somebody fluttuano tra riverberi e melodie figlie legittime
di Go-Betweens, Sunnyboys, Church, un’intera generazione di rock’n’roll
band che hanno saputo unire nella loro musica passato e presente, intelligenza
e rapimento.
Un po’ lo stesso effetto scaturisce dai suoni e dalle parole degli RVG:
Romy Vager affronta queste canzoni come una catarsi, afferma il lancio
promozionale del disco, e tra personale e universale tocca temi politici
ma anche frustrazioni e incitamenti che nascono dal profondo del suo vissuto,
condizione che la pone inevitabilmente in contrasto con quel mondo incapace
di accettarla. L’insieme si traduce in una musica che possiede lo scatto
dell’epica ma anche della confessione più intima: un senso di abbandono
e disperazione risale le volute di una ballata rock quale I
Used to Love You, mentre il guitar pop raggiante della band
esplode letteralmente in Prima Donna
e nelle movenze, ferine è il caso di dirlo, di Perfect Day. Unico
episodio che sembra dilatare il vigore del loro suono, molto uniforme
nell’esposizione di tutto l’album, è proprio la chiusura di Photograph,
sette minuti e passa di potenza ed enfasi trattenuta che monta fino alla
liberazione finale.