Nel romanzo Libertà di Jonathan Franzen c’è
un episodio in cui uno dei protagonisti, un ex cantante punk di mezza
età, assiste a un concerto dei Bright Eyes. La sua reazione è a
metà tra l’affascinato e lo stizzito: pur riconoscendone il talento, qualcosa,
nell’esibizione di quel cantante, lo urta. Come se tutta quell’emotività
esibita fosse il frutto di uno studiato atteggiamento. Una posa. Ecco,
confesso che nei confronti di Conor Oberst nutro da sempre un’analoga
ambivalenza. Trovo impossibile non riconoscere il crisma del talento in
molta della sua produzione (e ci metto dentro anche il bel pezzo di strada
fatto fuori dai Bright Eyes, tra lavori solisti e progetti disparati).
Del resto, il suo è uno dei primi 3-4 nomi che vengono alla mente se si
vuole tracciare una mappa del territorio indie folk americano degli ultimi
vent’anni. Però non riesco a non cogliere un senso di autocompiacimento,
una consapevolezza di sé e del proprio ruolo che sconfina a volte nel
manierismo.
L’album del “ritorno” della sigla Bright Eyes (nove anni sono passati
da quello che credevamo un disco d’addio, The People’s Key) non
aiuta a sciogliere il nodo. L’enigma Conor Oberst rimane per me irrisolto.
E questo nonostante non manchino gli indizi di un nuovo corso e la chiara
volontà di dare il segnale di una palingenesi. Nelle recensioni, ampiamente
positive, che hanno fin qui accompagnato l’uscita dell’album questi segnali
di discontinuità sono evidenziati. Ma a me, francamente, sembra di ascoltare
il solito disco di Conor Oberst. Sì, gli arrangiamenti sono più fantasiosi
e stratificati, le musiche per la prima volta non sono composte solo da
Oberst ma si avvalgono della collaborazione dei due compagni di strada
Mike Mogis e Nathaniel Walcott (i testi invece sono ancora tutti suoi).
E, naturalmente, è impossibile non rilevare in quello che canta i segni
della tragedie che hanno scosso in anni recenti la vita dell’ormai quarantenne
ex-ragazzo prodigio (la morte del fratello, un divorzio…).
Eppure, alla fine dell’ascolto di Down in the Weeds, Where the World
Once Was ritrovo la stessa irritazione che spesso ha accompagnato
la mia esperienza della musica del songwriter di Omaha: il senso di una
serie di intuizioni sublimi rovinate da una mancanza di misura, come se
osservassi un’artista che fa scempio del suo capolavoro con una martellata
di troppo. Non riesco a spiegarmi altrimenti la compresenza nel disco
di una melodia avvolgente come quella di One
and Done di fianco al retro-pop privo di fantasia di Pan
and Broom. O la malinconia piroettante di Stairwell Song costretta
a convivere con il kitsch di Persona non Grata. La toccante variazione
folk di Thilt-a-Whirl e la furberia
barocca di Comet Song. La semplice perfezione di To
Death’s Heart e Calais to Dover e il pastiche ruffiano
di Mariana Trench. Probabilmente mi devo arrendere: Conor Oberst
è questo, prendere o lasciare. Un venditore di gemme preziose che gode
a rifilarti anche un po’ di inutile paccottiglia.