Bright Eyes
Down In The Weeds, Where The World Once Was

[Dead Oceans/ Goodfellas 2020]

Sulla rete: thisisbrighteyes.com

File Under: Nobody's perfect


di Yuri Susanna (22/09/2020)

Nel romanzo Libertà di Jonathan Franzen c’è un episodio in cui uno dei protagonisti, un ex cantante punk di mezza età, assiste a un concerto dei Bright Eyes. La sua reazione è a metà tra l’affascinato e lo stizzito: pur riconoscendone il talento, qualcosa, nell’esibizione di quel cantante, lo urta. Come se tutta quell’emotività esibita fosse il frutto di uno studiato atteggiamento. Una posa. Ecco, confesso che nei confronti di Conor Oberst nutro da sempre un’analoga ambivalenza. Trovo impossibile non riconoscere il crisma del talento in molta della sua produzione (e ci metto dentro anche il bel pezzo di strada fatto fuori dai Bright Eyes, tra lavori solisti e progetti disparati). Del resto, il suo è uno dei primi 3-4 nomi che vengono alla mente se si vuole tracciare una mappa del territorio indie folk americano degli ultimi vent’anni. Però non riesco a non cogliere un senso di autocompiacimento, una consapevolezza di sé e del proprio ruolo che sconfina a volte nel manierismo.

L’album del “ritorno” della sigla Bright Eyes (nove anni sono passati da quello che credevamo un disco d’addio, The People’s Key) non aiuta a sciogliere il nodo. L’enigma Conor Oberst rimane per me irrisolto. E questo nonostante non manchino gli indizi di un nuovo corso e la chiara volontà di dare il segnale di una palingenesi. Nelle recensioni, ampiamente positive, che hanno fin qui accompagnato l’uscita dell’album questi segnali di discontinuità sono evidenziati. Ma a me, francamente, sembra di ascoltare il solito disco di Conor Oberst. Sì, gli arrangiamenti sono più fantasiosi e stratificati, le musiche per la prima volta non sono composte solo da Oberst ma si avvalgono della collaborazione dei due compagni di strada Mike Mogis e Nathaniel Walcott (i testi invece sono ancora tutti suoi). E, naturalmente, è impossibile non rilevare in quello che canta i segni della tragedie che hanno scosso in anni recenti la vita dell’ormai quarantenne ex-ragazzo prodigio (la morte del fratello, un divorzio…).

Eppure, alla fine dell’ascolto di Down in the Weeds, Where the World Once Was ritrovo la stessa irritazione che spesso ha accompagnato la mia esperienza della musica del songwriter di Omaha: il senso di una serie di intuizioni sublimi rovinate da una mancanza di misura, come se osservassi un’artista che fa scempio del suo capolavoro con una martellata di troppo. Non riesco a spiegarmi altrimenti la compresenza nel disco di una melodia avvolgente come quella di One and Done di fianco al retro-pop privo di fantasia di Pan and Broom. O la malinconia piroettante di Stairwell Song costretta a convivere con il kitsch di Persona non Grata. La toccante variazione folk di Thilt-a-Whirl e la furberia barocca di Comet Song. La semplice perfezione di To Death’s Heart e Calais to Dover e il pastiche ruffiano di Mariana Trench. Probabilmente mi devo arrendere: Conor Oberst è questo, prendere o lasciare. Un venditore di gemme preziose che gode a rifilarti anche un po’ di inutile paccottiglia.


    


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