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Experimental cosmic California rock
di Gianfranco Callieri (16/05/2019)
Cosa resta del sublime, furioso,
deragliante intreccio tra punk, classicità rock e sprazzi new-wave incarnato
dai Dream Syndicate — la formazione di punta del Paisley Underground
degli anni ’80, riformatasi nel 2012 dopo 23 anni di inattività — ora
che Steve Wynn, loro inamovibile capofila, è approdato a una piena maturità
dopo anni di dischi solisti a volte avventurosi e a volte di puro manierismo?
Resta, a quanto pare, l’esercizio di un’intelligenza rockista condivisa
con alcuni vecchi collaboratori (con ovvio riferimento alla sezione ritmica
costituita dal basso di Mark Walton e dai tamburi di Dennis Duck) e disseminata
a piene mani nell’articolazione di un nuovo lavoro attraversato dal desiderio
feroce di vivere e sperimentare dove il precedente, riuscitissimo How
Did I Find Myself Here? diceva invece di un’ancora granitica
capacità di riannodare i fili con il passato, fino a far credere non fosse
in fondo passato così tanto tempo da quando i DS sovrapponevano un crudo
realismo sonoro alla voglia di celebrare l’epopea lirica, tormentata,
ambigua, febbricitante, psicotica e tracimante elettricità di Doors, Velvet
Underground, Quicksilver Messenger Service, Neil Young etc.
Se Jason Victor è il chitarrista in assoluto meno dotato tra tutti quelli
transitati nelle fila dei DS, di sicuro non solenne, monumentale e inventivo
come Karl Precoda, ma neanche turbolento e scottante come il più modesto
Paul B. Cutler, il suo gesto cellulare e ossessivo si adatta tuttavia
come un guanto ai brani monologanti, iterativi e drogati di questo These
Times, uno di quei dischi dove sembra obbligatorio mettersi a
cercare, dietro le rassicuranti esplosioni di magistero r’n’r delle varie
Still Here Now (col suo intreccio di
tastiere e sei corde, uno delle rievocazioni più esplicite dei gloriosi
trascorsi della sigla) e Recovery Mode (fucilata post-punk nel
più tipico stile di Wynn solista), quel che brulica in sottofondo, tra
tempi sospesi, trasparenze, luci opalescenti e docce di visioni cosmiche.
Intendiamoci, l’unico pezzo davvero riconducibile all’epopea kosmische
dei gruppi tedeschi dei ’70, e cioè l’ultima Treading Water Underneath
The Stars, è anche il brano più debole dell’intera raccolta, perché
il resto del programma, a partire dalle nevrosi di ritmo della deliberata
Put Some Miles On (quasi a suggerire
un passaggio di consegne tra il vulcanico free della storica John Coltrane
Stereo Blues e il jazz-rock dalle tinte hendrixiane e voodoo delle nuove
composizioni), sembra riferirsi, senza il funk, ai toni aggressivi e spaziali,
notturni e orgiastici del Miles Davis degli anni ’70, alle scosse dei
R.E.M. dell’epoca grunge, alle lenticolari compressioni sonore di Wire
e Mission Of Burma, alla poetica decadente e schizoide dei primi Swell
Maps.
Le scorticature dell’iniziale The Way In, lo spiritual digitale
e sconvolto di Black Light, il folk-rock
su polvere di stelle della scintillante Bullet
Holes, lo sfascio punkeggiante della distorta Speedway,
la dimessa epopea neo-noir di una The Whole World’s Watching dalla
sintassi emotiva prosciugata e affilata, nonché lo sferragliare in mezzo
a squarci di jazz modale della rabbiosa Space
Age, raccontano di un assalto della notte, di un’escalation
spettacolare di crudezza e sperimentazioni sempre più iperboliche, estenuanti,
immersive. E raccontano anche di come a Wynn e soci, finché ci saranno
strumenti da tramortire e parabole elettriche da disegnare con selvaggio
e delirante abbandono, delle centinaia di pippe teoriche sulla scomparsa
del rock e delle chitarre non possa importare di meno. Figuratevi a noi.