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folk
di Nicola Gervasini (23/09/2019)
Tra i viaggi dei miei sogni
c’è sicuramente l’Islanda, terra di natura crudele, ma alquanto generosa
di spettacoli. E anche landa di silenzio e riflessione, portata in musica
dai suoi pochi ma ben famosi rappresentanti negli anni (Bjork e Sigur
Ròs i più celebri), quasi che le veemenze del rock non si adattino ai
ritmi blandi che il clima locale impone. Esiste però un certo cantautorato
americano che invece in quel torpore potrebbe trovare terreno fertile,
e lo dimostra oggi Joan Shelley con questo Like The River Loves
The Sea. Lei viene dal Kentutcky, e dopo essersi fatta le ossa come
spalla di Daniel Martin Moore, con cui ha pubblicato anche un disco a
due mani (Farthest Field del 2012), ha avuto l’onore di farsi produrre
da Jeff Tweedy per il suo album omonimo uscito nel 2017.
In occasione invecedi questo nuovo capitolo la Shelley ha preso la drastica
decisione di portare tutto in Islanda e affidarsi al produttore locale
Albert Finnbogason, che si è preoccupato di farle trovare uno studio già
scaldato da session-women come le violiniste Þórdís Gerður Jónsdóttir
e Sigrún Kristbjörg Jónsdóttir. A seguirla nel viaggio sono stati comunque
i bravissimi chitarristi James Elkington (sentito anche nei dischi di
Steve Gunn e del Richard Thompson “americano” di Still) e Nathan
Salsburg, mattatori con la loro acustica di un album fatto di un folk
sognante che mette l’accento su ogni singolo strumento, isolandolo nel
silenzio generale. La Shelley da parte sua ci mette la sua voce pigra
e melodiosa e una manciata di buone canzoni, con particolare encomio per
la bellissima Cycle. A impreziosire
il piatto, ma anche a definirne la natura, ci pensa anche Bonnie “Prince”
Billy che si prodiga ai cori in Coming Down For
You, e se Teal si fa avvolgere da sapori di folk irlandese,
The Fading è puro cantautorato di Nashville alla Emmylou Harris
(sempre con mister Oldham in session).
Il disco non concede variazioni sul tema come toni, se non appunto sulla
grammatica di base, che può essere quella di uno spiritual come Awake
o di una dolce folk-song come The Sway,
sempre caratterizzati dalla voce della Shelley (a volte molto simile a
quella di Aimee Mann) e dagli interventi garbati ma decisivi della sezione
d’archi (molto bello l’arrangiamento di Stay All Night). Dodici
brani eterei che necessitano una particolare ambientazione per essere
apprezzati, nonostante poi i temi dei testi non riguardino l’Islanda,
ma quelli più classici ma sempre attualmente universali della fine di
una relazione importante. Situazione ideale per una fuga in mezzo ai ghiacci
a cantare la struggente High On The Mountain,
che non sarà certo l’ultimo grido disperato di un cuore spezzato, ma fa
comunque parte di un coro eterno di amori interrotti, che sono poi la
ragione principale dello scrivere e ascoltare questo tipo di canzoni.