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Masked and Anonymous
di Nicola Gervasini (22/04/2019)
Per anni i critici musicali
si sono scervellati per capire in che direzione stava andando il rock
(intenso nel senso più largo) e a cercare la “Next Big Thing” che avrebbe
rimescolato nuovamente le carte. Oggi questa discussione pare non avere
più senso, e quello che nessuno aveva previsto è che la presunta continua
progressione ed evoluzione del rock sarebbe morta a causa della fine di
un mercato che alimenti questa crescita, più che per vero esaurimento
di idee. Per questo penso che solo venti anni fa un personaggio come Orville
Peck sarebbe stato pompato con copertine, proclami e discussioni sulla
veridicità del personaggio, mentre oggi pare poter essere solo un curioso
nuovo arrivato, tirato fuori dal cilindro di una Sub Pop alla continua
ricerca di una nuova identità.
Impossibile infatti non rimanere attirati dai video che rappresentano
questo disco di esordio chiamato Pony, dove vediamo un cowboy
mascherato non da fuorilegge con il canonico polveroso fazzoletto sulla
bocca, ma con una sorta di maschera da Zorro con aggiunta di stilose e
ben poco rudi frange. Ma è la musica che colpisce, con le sue mille influenze,
in cui l’outlaw-country passa quasi in secondo piano. Il video di Turn
To Hate gioca col mito del pub con tanto di toro meccanico,
ma attraverso un brano infarcito di chitarre da underground anni 80 a
metà tra i primi REM e Lloyd Cole (ricordato tanto anche nel modo di cantare),
ma già Dead Of The Night e Big
Sky si spostano in uno strip-club/bordello in mezzo al deserto con
armonie che potrebbero appartenere al Chris Isaak più autunnale. Il cowboy-swing
di Roses Are Falling sembra invece un brano dell’Elvis Presley
più rilassato, Take You Back una cavalcata del West tra fischi
e spari morriconiani e racconti gothic alla Johnny Cash. Quello che rende
intrigante la sua proposta è quel taglio un po’ notturno delle sue canzoni,
tanto che in fondo una Nothing Fades Like A Night
non sarebbe stata male su un vecchio disco dei Tindersticks, Buffalo
Run potrebbe essere una cover di un vecchio brano dei Thin White Rope,
e Queen Of The Rodeo il risultato di un viaggio americano di Morrissey.
Anche se altrove si viaggia su rassicuranti stilemi da puro country-rock
radiofonico (Winds Change), o si gioca con old-songs uscite da
finte radio gracchianti (Kansas, esperimento che potrebbe anche
ricordare le canzoni dalla cabina telefonica del Neil Young di A Letter
Home).
In sostanza un disco ben fatto (con uno stuolo di ancora poco noti amici),
con canzoni scritte con maestrìa anche se mai davvero memorabili, e un
artista che vuole restare misterioso (di lui sappiamo che è canadese)
probabilmente più per giocare a un marketing casereccio, che non so quanto
possa ancora funzionare. Il vantaggio, come dicevo, è che ci siamo liberati
dall’arduo compito di proclamare se Orville Peck sia bluff o sostanza,
se il futuro della country music passa da qui, o sia solo un patetico
buffone venuto a cercar fortuna mescolando a caso un po’ di cose sentite
alla radio di Nashville e nei dischi anni 80 di suo padre. Vi lasciamo
questa responsabilità, godendoci quello che in fondo è solo un più che
discreto e piacevole disco, che vi consigliamo senza urlare troppo.