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lush beauty
di Domenico Grio (05/06/2019)
I motivi di perplessità intorno
a questo ottavo album dei National erano davvero molti. Si annunciava,
infatti, un lavoro dalla gestazione quantomeno anomala: diversi impulsi
creativi, un po’ di materiale riesumato dai cassetti, l’utilizzo di ben
sette studi di registrazione tra gli States e l’Europa, un omonimo cortometraggio
(protagonista il premio oscar Alicia Vikander) collaterale al disco ma
non funzionale allo stesso, una produzione affidata in parte allo stesso
regista Mike Mills (non proprio un esperto di musica), tante partecipazioni
esterne ad imprimere un’inedita e preminente impronta femminile, insomma
un sostanziale ribaltamento degli schemi ed il concreto rischio di rompere
il magnifico giocattolo. Ma a fronte di una innegabile eterogeneità strutturale,
I Am Easy to Find è tutt’altro che quel passo falso che in molti
persino auspicavano, essendo destinato, per molti versi, a divenire un
pezzo pregiato, se non unico, della già importante discografia della band
di Cincinnati.
Esagerato? Forse è solo questione di sensazioni estemporanee, di umori,
di fideistiche aspettative. O forse è piuttosto la musica a indirizzare
mente e cuore, a programmare percorsi intriganti ed a concedere, ai più
intrepidi, squarci di luce che fendono la patina oscura posta in superficie.
Di certo c’è che le canzoni di questo album, nessuna esclusa, esibiscono
una originale poetica che si impregna di un rarissimo gusto espositivo,
tra magiche e moderniste narrazioni folk, efficaci contaminazioni new
wave ed una vitale spinta emozionale a cui anche i suoni elettronici sono
costretti a piegarsi. Forse lo straordinario patrimonio melodico viene
attutito, a primo impatto, dai frequenti cambi di scena, forse. O magari
sono proprio i variegati colori dei brani, tutti accomunati da un’introspezione
sui temi dell’amore, della solitudine, dello smarrimento, del desiderio,
ad esaltare le idee compositive della band. Di sicuro c’è che Matt Berningen,
ancora una volta coadiuvato nel lavoro di scrittura da Bryce e Aaron Dessner
e dalla moglie Cari Besser, ha tirato fuori una serie di canzoni che è
difficile non classificare nella sezione “masterpiece” o, quanto meno,
“best of”.
Not in Kansas racconta della nostalgia di casa, del tramonto
delle ideologie progressiste (“L'Ohio è in una spirale discendente; Non
posso più tornare là da quando l'oppio della destra è diventato virale”),
della sensazione di inadeguatezza con cui si è costretti a convivere (“Padre
cosa c’è che non va in me?”), in un crescendo emozionale reso ancor più
intenso dalle voci di Gail Ann Dorsey (già a fianco di Bowie), Lisa Hanningan
e Kate Stables, quest’ultima presente anche in diverse altre tracce del
disco. Brano splendido. La title track e la conclusiva Light
Years sono due eleganti acquerelli esistenzialisti e neo romantici,
di plastica bellezza. Roman Holiday e Quiet Life (identico
titolo di un lavoro dei Japan), offrono indubbi richiami all’art rock
di David Sylvian ed incantano con altre immagini sonore. E ancora, The
Pull of You e Oblivions, in cui sono rispettivamente
Sharon Van Etten e Mina Tindle ad aggiungersi al copioso elenco degli
ospiti, contribuiscono ad ampliare la cifra stilistica dell’album, proponendo
un pop colto ed ombroso in linea con la gloriosa tradizione della 4AD.
Ogni brano ha una propria storia ed un’autonoma gestazione, è vero, ma
ciò più che rappresentare un ostacolo alla fluidità compositiva del disco,
si rivela un valore aggiunto e questa band “allargata” più che produrre
confusione e linee guida conflittuali, amplifica la vivacità intellettuale
dei suoi interpreti. L’idea di musica è univoca e coerente ma in lucida
evoluzione ed il lessico de plano mira a svincolarsi da una infeconda
staticità, in tal senso, piaccia o meno, I Am Easy to Find è molto
più di un mosaico di raffazzonate intuizioni, è un’opera priva di meticolosa
progettualità proprio perché scorre come un entusiasmante flusso di coscienza,
libera, ambiziosamente anarchica e meravigliosamente vibrante.