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Under:surrealistic
folk
di Yuri Susanna (26/06/2019)
La critica musicale è pigra.
Se una giovane autrice di canzoni finisce sotto l’egida di un produttore
come John Parish, com’è accaduto un paio di anni fa alla neozelandese
(ora trapiantata in Galles) Aldous Harding, è praticamente inevitabile,
quasi un riflesso pavloviano, che comincino a spuntare nelle recensioni
riferimenti e paragoni con PJ Harvey. Ma, a differenza di quello che insegnano
gli assiomi della geometria, non sempre la linea retta è la distanza minore
tra due punti. Dimenticate quindi le apparenti scorciatoie e concentratevi
sulla musica della talentuosa Aldous (pseudonimo androgino che va a sostituire
un ben più banale nome di battesimo: Hannah). Non troverete le asprezze,
né di voce di scrittura, della Harvey. Semmai, una ricetta di base acusticamente
folk, arricchita di intersezioni pop e vagamente psichedeliche che riportano
più facilmente, se vogliamo, alla California dei Settanta che alle ragazze
arrabbiate dei Novanta.
La vera cifra stilistica della Harding va quindi ricercata altrove, fuori
dei banali tentativi di incasellamento. Ed è una cifra che fa dello straniamento
(del surrealismo, diremmo) il suo strumento privilegiato di espressione.
Prima di tutto, i testi: le parole delle canzoni di Designer
giocano a celare il loro senso dietro accostamenti arditi, immagini criptiche
che richiedono uno sforzo interpretativo che lascia con un vago sentore
di inquietudine, l’accenno a un mistero di cui si intravedono solo improvvisi
barlumi. Frammenti di verità, forse. Ma questo gioco - che trova una sua
incarnazione visiva anche nel video
del primo singolo d’accompagnamento al disco, The
Barrell, diretto con mano lynchiana da Martin Sagadin e ispirato
alla Montagna sacra di Jodorowsky – non si limita al contrasto tra la
leggerezza (in senso positivo) della musica e il mistero delle parole.
Anche il modo di cantare della Harding, che alterna un registro quasi
infantile a uno più fondo, da contralto, è un tassello fondamentale di
questo universo espressivo.
Ciò che questo terzo album (il secondo prodotto da Parish) ha inquadrato
definitivamente è la capacità di questa folksinger di mantenere il senso
di straniamento in un contesto che lo arricchisce per contrasto, senza
cioè rinunciare all’accessibilità: se la musica di Designer fosse
pensata su misura dell’inquietudine veicolata dalle parole e dalla voce,
il senso di claustrofobia diventerebbe probabilmente insopportabile. Invece
le melodie ariose, gli arrangiamenti che privilegiano l’intersecarsi organico,
caldo degli strumenti (prevalentemente acustici), liberano la surreale
fantasia della Harding, permettendole di affascinare e lambire la nostra
curiosità a lungo. The Barrell, a cui si è già fatto cenno, procede
piroettando intorno a un arpeggio di chitarra a cui si aggiungono un po’
alla volta gli altri strumenti, mentre Fixture
Picture ci ricorda che non si può essere “pure and in love”
librandosi su una melodia che ha il colore delle passeggiate estive nei
boschi. Un tono bucolico che ritroviamo anche altrove (in Zoo Eyes,
per esempio), mentre nella title track sembra di ascoltare una Suzanne
Vega appena riemersa dal Paese delle Meraviglie... Anche i brani più scarni,
come il lungo bolero pianistico in slow motion di Damn
o la conclusiva Pilot, rivelano più di un gancio melodico.
“Intrigante” è l’aggettivo che meglio definisce le canzoni di questo disco,
e siamo pronti a scommettere che nel rito delle classifiche di fine anno
se ne ricorderanno in molti.