Negli anni Sessanta era
più che normale che una band pubblicasse due (e anche più) dischi nello
stesso anno, sia perché il periodo di vita commerciale di un disco era
stimato in tre mesi al massimo (sei mesi se proprio aveva successo), sia
perché spesso i brani erano registrati in pochi giorni e con pochi interventi
produttivi successivi. Per questo motivo, è particolare che una band come
i Big Thief, esordienti di ottime speranze solo poco tempo fa con
gli album Masterpiece (2016) e Capacity (2017), abbiano
pubblicato quest’anno una doppietta a pochi mesi di distanza, a dimostrazione
della loro crescita e del fatto che sono sicuramente una delle realtà
“nuove” più interessanti del momento. U.F.O.F. è uscito
il 3 maggio, Two Hands l’11 ottobre, eppure non sono due
dischi nati dalle stesse sessions, e si sente.
U.F.O.F. (in teoria sarebbe un acronimo medico che sta per Uniocular
Fields of Fixation, ma loro ci hanno giocato trasformando UFO - Unidentified
Flying Object – aggiungendoci la parola Friend, per cui il senso corretto
è “Fare amicizia con l’ignoto”) nasce infatti a Washington, e quando è
uscito è stato acclamato un po’ ovunque come il loro disco della maturità,
con l’intreccio tra la voce di Adrianne Lenker e le chitarre di Buck Meek
che raggiunge in certi pezzi una nervosa tensione, che in qualche modo
me li fa vedere come gli eredi spirituali dei Mazzy Star. L'album possiede
anche un mood alquanto tetro, occhieggia allo slowcore in brani come Contact
o Open Desert, e si apre al pubblico solo in rari casi come Strange
o Century, aggiungendo ad un mix certo non inedito e innovativo
un tocco “indie” tutto loro. Di altro registro è invece Two Hands,
che rappresenta quasi una happy side del predecessore, e che la band stessa
ha presentato come “the earth twin”, sottolineando lo spirito terreno
delle nuove canzoni rispetto a quelle di U.F.O.F, le quali, in un certo
senso, rimanevano sospese nell’aria.
Le registrazioni sono avvenute in un ranch del Texas, e forse anche questa
ambientazione ha portato a recuperare molto delle loro radici “roots”
che in U.F.O.F rimanevano solo accennate. Registrato in presa diretta
dal fedele produttore Andrew Sarlo, i dieci brani scorrono leggeri, con
il picco di Forgotten Eyes e del lungo
primo singolo Not. A questo punto,
logico che sia nata la questione tra i fans su quale sia il disco da mettere
poi nelle classifiche di fine anno, forse equamente divisi tra chi preferisce
la spessa nebbia che ammanta U.F.O.F o il sapore più ruspante e
scanzonato di Two Hands. Da parte nostra in mezzo a tante nuove
uscite che seguono partiture già scritte, fa piacere ritrovare nei Big
Thief una realtà al momento talmente in stato di grazia da poter pensare
due dischi così diversi in poco tempo, quasi a dire che per differenziarsi
oggi non bisogna inventarsi uno stile (difficile riuscirci ormai), quanto
saper maneggiare più registri contemporaneamente, e per una band che in
studio non si fa aiutare da session-men e collaborazioni esterne, questo
diventa davvero un punto di merito non indifferente.