File Under:
indie folk, psych folk di
Luca Volpe (04/08/2018)
Misteri dell'epoca nostra come questo meritano un'analisi, invece che obliare
e passare ad altro. Come sia possibile che ricevano risalto artisti privi di talento,
è il grande insulto all'arte che dall'esordio di Madonna ha creato cloni d'ogni
tipo in generi diversi. Il clone non deve ricalcare l'aspetto fisico o la musicalità,
ma una serie di elementi: qui c'è un personaggio che viene spinto per le pose
da ennesima "finta chanteuse", nativa dall'asfittico scenario di un
indie sempre più immerso nei propri stereotipi. Jess Williamson giunge
al quarto disco in sette anni. Cantante, chitarrista, banjoista e autrice, miete
successi in ambito alternativo. Per questo Cosmic Wink chiunque s'unisce
al coro di SOSpingitori di cavalieresse, scomodando paragoni improbabili,
nell'ordine: Townes Van Zant, Buffy-Sant Marie, Patti Smith, gli onnipresenti
Pink Floyd, Van Morrison, CCR, Byrds, e i più recenti Cowboy junkies e Angel Olsen,
un esercito citato per un indie cantautorale figlio intristito e sciapo della
Mary Gauthier che, nei momenti peggiori, mai scenderebbe a simili livelli.
La
stampa USA se ne intende di richiami spropositati alla California più mitizzata,
ed esagera in un delirio di propaganda markettara che da tempo non si vedeva a
simili intensità per un'artista statica, le cui canzoni in ogni disco sembrano
sempre la stessa rimestata più volte. La novità è che se la signora Ciccone poteva
sfrigolare qualche palato pruriginoso per via delle sue scenette finto trasgressive,
la Williamson offre solo una voce triste, dalla tecnica inesistente, calante,
afona… e stonata. E un cantante può perdere la voce esibendosi, ma su disco è
ridicolo. Che questo dilettantismo amatoriale diventi cifra stilistica è una beffa
che dai Sex Pistols non impressiona più nessuno (e John Lydon poi si riscattò
con i PIL). La musica è un country alternativo, ma non vale la pena di ascoltare
ogni canzone, come ha dovuto fare chi scrive in cerca di qualcosa. Le canzoni?
Noiose. Talvolta come in White Bird sembrano
arrivare in territori psichedelici, ma gli stanchi ghirigori di chi vorrebbe imitare
qualcosa di più grande di sé, creano effetti imbarazzanti.
Questo dilettantismo
pretenzioso esplode su Mama Proud, la canzone più lunga, che ricorda fortuitamente
un pachidermico mostro dei Sunn O))), invece vorrebbe essere un richiamo alle
divagazioni semi progressive della (tenersi forte) Joni Mitchell più elettrica.
Già l'iniziale I See the White presenta i
difetti di una musicista che è certamente meglio come strumentista che cantante
(e anche quì dovrebbe mettersi al lavoro) e nessuno ha il coraggio di dirglielo.
Non i produttori, non il resto della stampa. Noi ci prendiamo questo peso di fronte
all'ennesimo frutto del marketing, asfittico gioco di parole e compromessi che
uccide la musica con finti divi intellettualoidi o casi sociali spremuti in un
tritacarne fetido e autoritario che qualcuno (in malafede) sostiene crei emozioni.