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All the Folk Songs That's Fit to Sing di
Nicola Gervasini (04/06/2018)
Mentre ascoltavo St. Peter di Emma Tricca immaginavo la sua label
discografica impegnata in un divertente scherzo da primo di aprile, e cioè far
uscire il disco spacciandolo per il lost-record di qualche oscura chanteuse folk
inglese dei primi anni settanta, qualcosa come una attesissima ristampa di un
disco noto solo ai collezionisti di vinile, con conseguente operazione di riscoperta
sulla falsa riga di Vashti Bunyan, Linda Perhacs o Anne Briggs. Sono sicuro che
in questo caso oggi non saremmo qui a dovervi convincere che una ragazza italiana
possa davvero essere in grado di maneggiare una materia nobile quanto antica come
il brit-folk con così tanta sicurezza, affrontando i vostri sguardi scettici (e
li vedo anche al di qua dello schermo).
La biografia di Emma Tricca narra
di incontri rivelatori con John Renbourn e Odetta e di un volontario esilio a
Londra cercando un ambiente più consono alla sua musica, storie usuali quarant'anni
fa, ma stavolta il tutto si è svolto negli anni duemila. Narra anche di una gavetta
(incredibile, ma qualcuno la fa ancora!) fatta di concerti nei pub e prime esperienze
discografiche in costante crescita (l'esordio con Minor White è del 2009, Relic
del 2014), e di continui riconoscimenti nel mondo folk britannico. Nessun cervello
in fuga quindi, solo una ragazza che ha deciso di abbracciare uno stile e studiarlo
fino in fondo sul luogo di origine. E oggi arriva St. Peter, quello
che ai tempi avremmo definito l'album della maturità, dove il suo canto impostato
e decisamente debitore della già citate Odetta e Vashti Bunyan (ma soprattutto,
secondo me, di Karen Dalton), trova humus ideale in un pugno di brani davvero
ben scritti e realizzati con musicisti certo non di primo pelo.
Fa abbastanza
impressione, infatti, vedere coinvolto nel progetto Steve Shelley, storico
batterista dei Sonic Youth, in libera uscita da una band che speriamo sempre di
non dover ritenere definitivamente sciolta, ma anche alle prese con un genere
non certo abituale per lui. Così come si calano perfettamente nella parte di modernizzatori
della tradizione (in puro stile Renbourn o Richard Thompson) il Dream Syndicate
Jason Victor o l'Howie Gelb che passa a dare un suo contributo in Fire Ghost.
Il disco tra l'altro, dopo una partenza melodica e tradizionale con Winter,
My Dear, assume anche una vena di folk sperimentale davvero interessante,
che a volte richiama certi passaggi degli Espers o di Ryley Walker, e se spesso
è la melodia ad essere in primo piano (Julian's Wings),
altrove Emma lancia i suoi collaboratori in piccole jam anche elettriche come
Buildings In Millions. Ma la sua maturità emerge anche nella capacità di
saper alternare i sapori, come il giro un po' alla Neil Young di Salt,
l'assolo acido di Green Box o la bellissima ballata Mars
is Asleep.
Nel finale arriva lo zenith del disco, con una impressionante
(per quanto è bene arrangiata) The Servant's Room e
i tesi sette minuti e passa di Solomon Said,
in cui fa capolino un ipnotico spoken di Judy Collins che recita la propria Albatross.
Chiude con dolcezza solo apparente So Here It Goes, ballata acustica che
si trasforma in un'altra esplosione di strumenti in libertà. L'ascolto di questo
album. più che consigliato, è caldamente sollecitato.