Calexico
The Thread that Keep Us
[
City Slang
2018]

casadecalexico.com

File Under: indie latin-rock

di Fabio Cerbone (05/02/2017)

Annunciato dalla coppia John Convertino e Joey Burns, da sempre corpo e anima del progetto Calexico, come un album attraversato da un "expansive sound", una visione musicale ancora più aperta alle mille suggestioni e contaminazioni che sottendono la storia della band, The Thread That Keeps Us è l'ennesimo lavoro che conferma il distacco consapevole dalla prima parte di carriera del gruppo di Tucson. Si tratta dell'elaborata e ambiziosa trasformazione in qualcosa di più raffinato e composto, pur fra la numerose qualità strumentali e i continui spunti sonori che di volta in volta si affacciano nelle canzoni. Resta il fatto che del fascino misterioso, della pulsione cinematica, dei grandi orizzonti desertici che avevano conquistato la scena nei primi anni di vita della band rimangono i fantasmi, ricordi sepolti sotto una patina di coscienzioso indie rock velato di ritmi latini che tende spesso ad essere ordinato, svuotato un po' di senso, fra canzoni che scorrono senza grande mordente.

Registrato fuori dai confini geografici di Tucson, radice del suono Calexico, nati da una costola dei Giant Sand di Howe Gelb, Thread That Keeps Us ha preso forma nella ribatezzata "The Panoramic House", studio casalingo situato a nord della California, costruito partendo da rottami e legname di riciclo delle barche, sotto la direzione artistica del fedele Craig Schumacher. Il luogo ha dato la spinta definitiva all'ispirazione, dicono Convertino e Burns, un atteggiamento più elettrico, un suono effettivamente più espanso (le citazioni sottili di David Bowie che emergono nell'iniziale End of the World with You) ha preso il sopravvento, ma senza snaturare un percorso che si spinge in avanti ormai da diverse stagioni. Ci sono ancora le ballate che si colorano di una vaga eco country folk e quei dolci fremiti jazzy in The Town & Miss Lorraine e Thrown to the Wild; sono presenti quegli scatti rock al confine messicano, solo resi più moderni e accattivanti in Voices in the Field e Bridge to Nowhere, e magari qualche strumentale che ha sempre reso immaginifica la musica dei Calexico.

Peccato che questi ultimi (da Unconditional Waltz a Shortboard) non abbiano un briciolo della seduzione scura di un tempo e così neppure le trovate surf garage di Dead in the Water o le carazze acustiche di Music Box possono rivaleggiare con quella piena maturità che scaturiva in opere quali Feast of Wire. Restano così gli episodi dall'impronta latina più spiccata nei ritmi, come Under the Wheels e Flores Y Tamales, eppure l'effetto non cambia: una routine, una prevedibile costruzione di brani "alla Calexico" li rende riempitivi che ci devono essere quasi per obbligo contrattuale, pronti magari per una festosa riproposizione dal vivo.

Thread That Keeps Us indaga il mondo dalla visuale dei confini e così la natura che influenza la vita stessa dei Calexico come musicisti, uomini e padri di famiglia, cercando narrazioni che mettano in evidenza i contrasti della società, le luci e le ombre, come sottolinea Joey Burns parlando della parte lirica dell'album. In questo apparente caos, in questo "tornare a casa e capire che le cose sono cambiate, ma non sempre per il meglio", l'intenzione è di trovare un seme di speranza. La colonna sonora scelta per esprimere questi sentimenti sembra tuttavia avere inchiodato i Calexico a un progetto più grande degli stessi risultati raggiunti. Thread That Keeps Us resta soltanto un altro disco in coda ad una lunga scia di successi consolidati, per una band a cui avremmo augurato ben altro finale.


    


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