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indie latin-rock di
Fabio Cerbone (05/02/2017)
Annunciato dalla coppia John Convertino e Joey Burns, da sempre corpo e anima
del progetto Calexico, come un album attraversato da un "expansive sound",
una visione musicale ancora più aperta alle mille suggestioni e contaminazioni
che sottendono la storia della band, The Thread That Keeps Us è
l'ennesimo lavoro che conferma il distacco consapevole dalla prima parte di carriera
del gruppo di Tucson. Si tratta dell'elaborata e ambiziosa trasformazione in qualcosa
di più raffinato e composto, pur fra la numerose qualità strumentali e i continui
spunti sonori che di volta in volta si affacciano nelle canzoni. Resta il fatto
che del fascino misterioso, della pulsione cinematica, dei grandi orizzonti desertici
che avevano conquistato la scena nei primi anni di vita della band rimangono i
fantasmi, ricordi sepolti sotto una patina di coscienzioso indie rock velato di
ritmi latini che tende spesso ad essere ordinato, svuotato un po' di senso, fra
canzoni che scorrono senza grande mordente.
Registrato fuori dai confini
geografici di Tucson, radice del suono Calexico, nati da una costola dei Giant
Sand di Howe Gelb, Thread That Keeps Us ha preso forma nella ribatezzata "The
Panoramic House", studio casalingo situato a nord della California, costruito
partendo da rottami e legname di riciclo delle barche, sotto la direzione artistica
del fedele Craig Schumacher. Il luogo ha dato la spinta definitiva all'ispirazione,
dicono Convertino e Burns, un atteggiamento più elettrico, un suono effettivamente
più espanso (le citazioni sottili di David Bowie che emergono nell'iniziale End
of the World with You) ha preso il sopravvento, ma senza snaturare
un percorso che si spinge in avanti ormai da diverse stagioni. Ci sono ancora
le ballate che si colorano di una vaga eco country folk e quei dolci fremiti jazzy
in The Town & Miss Lorraine e Thrown to
the Wild; sono presenti quegli scatti rock al confine messicano, solo resi
più moderni e accattivanti in Voices in the Field
e Bridge to Nowhere, e magari qualche strumentale che ha sempre reso immaginifica
la musica dei Calexico.
Peccato che questi ultimi (da Unconditional
Waltz a Shortboard) non abbiano un briciolo della seduzione scura di
un tempo e così neppure le trovate surf garage di Dead
in the Water o le carazze acustiche di Music Box possono rivaleggiare
con quella piena maturità che scaturiva in opere quali Feast of Wire. Restano
così gli episodi dall'impronta latina più spiccata nei ritmi, come Under
the Wheels e Flores Y Tamales, eppure l'effetto non cambia: una routine,
una prevedibile costruzione di brani "alla Calexico" li rende riempitivi che ci
devono essere quasi per obbligo contrattuale, pronti magari per una festosa riproposizione
dal vivo.
Thread That Keeps Us indaga il mondo dalla visuale dei confini
e così la natura che influenza la vita stessa dei Calexico come musicisti,
uomini e padri di famiglia, cercando narrazioni che mettano in evidenza i contrasti
della società, le luci e le ombre, come sottolinea Joey Burns parlando della parte
lirica dell'album. In questo apparente caos, in questo "tornare a casa e capire
che le cose sono cambiate, ma non sempre per il meglio", l'intenzione è di trovare
un seme di speranza. La colonna sonora scelta per esprimere questi sentimenti
sembra tuttavia avere inchiodato i Calexico a un progetto più grande degli stessi
risultati raggiunti. Thread That Keeps Us resta soltanto un altro disco in coda
ad una lunga scia di successi consolidati, per una band a cui avremmo augurato
ben altro finale.