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norwegian troubadour di
Gianuario Rivelli (23/03/2017)
Non
è raro che il Nord Europa sforni musica dal respiro internazionale, capace di
valicare i confini della Scandinavia e proporsi nelle cuffie di chi ascolta mascherando
completamente la propria provenienza con un perfetto abito anglosassone. Ma se
la Svezia si è sempre contraddistinta per un pop col killer instict incorporato
(per le classifiche ma anche…. per gli ascoltatori), la Norvegia, con l'eccezione
degli A-Ha, ha più frequentemente lanciato nell'etere proposte sotterranee, spesso
sorprendenti, dal fascino oscuro, con un quid di maudit e crepuscolare. A tal
proposito il vostro scribacchino non può trattenersi dal ricordare la folgorazione
che ebbe per i primi due dischi dei Madrugada, band di stanza proprio nella terra
dei fiordi.
Chiusa la parentesi elegiaca e autobiografica e tornando al
tema "musicisti norvegesi da ascoltare", alla categoria va iscritto di diritto
Torgeir Waldemar, barba lunga e allure da trobadour anni 70, ex chitarrista
in varie band e dal 2014 in proprio con l'omonimo esordio, seguito tre anni dopo
da questo splendido No Offending Borders. E' evidente che gli anni
70 non sono solo nel look, bensì nell'intero armamentario: dalla copertina (la
sedia è quella del Knikves Hotel di Balestrand: la occupava Guglielmo II Re di
Prussia nel momento in cui seppe che la Prima Guerra Mondiale era cominciata)
al numero delle canzoni (soltanto otto), dal suono (un mix di elegie acustiche
e trascinanti ballatone elettriche) alla "sostanza" che sprigiona ogni nota. Waldemar
sfoggia una padronanza della materia ed un'ispirazione compositiva clamorose,
iniettando in diversi punti del disco un senso di fine incombente, di giorno del
giudizio, aprendosi all'epica e negandosi qualsiasi concessione al pietismo.
Prendete
l'uno-due Summer in Toulouse e
Sylvia (Southern People): sottoposte a un blind test, non so quanti
non le attribuirebbero al miglior Neil Young con la spina attaccata. Riff potenti,
dilatazioni, esplosioni improvvise e ritornelli micidiali per due brani memorabili
che da soli potrebbero già reggere un intero album. E invece non è tutto qui,
anzi: Among the low avanza con un incedere insinuante e inquietante, con
incursioni psichedeliche e sprofondi neanche ci avesse messo mano David Eugene
Edwards (Woven Hand, 16 Horsepower), Island Bliss è una love song che si
immerge in abissi di malinconia, Souls On a String con il sapiente uso
del controcanto femminile e del sintetizzatore è non meno che ipnotica. Non può
mancare un tuffo nel western malato di The Bottom of
the Well: lamento strozzato dell'ennesimo rinnegato dalla vita.
Come
ci finisca in Norvegia l'America più ancestrale e profonda è un mistero che solo
la musica è in grado di spiegare. E se non ce lo spiega e si limita a farsi ascoltare
sui livelli di No Offending Borders, della spiegazione del mistero possiamo tranquillamente
fregarcene. Ascoltare queste canzoni basta e avanza.