Tinariwen
Elwan
[
Wedge/ Pias
2017]

tinariwen.com

File Under: exile desert blues

di Pie Cantoni (13/03/2017)

Che l'esilio porti a grandi opere, è già successo in passato. Dante, Caravaggio, Ovidio, per finire con gli Stones, abbiamo esempi di capolavori in tutti i campi delle sette arti liberali. La band pluriacclamata dei Tinariwen, in esilio dalla terra natale del Mali per motivi religiosi ed etnici, ha trovato asilo politico nel mondo musicale internazionale. Da U2 a Coldplay, da Robert Plant a Henry Rollins, passando anche per i festival musicali più importanti come Coachella o Glastonbury, tutti vogliono i sei Tuareg che hanno iniziato a fare musica nel lontano 1979 (quando da noi eravamo in piena era new-wave). Il bagaglio culturale e umano che si portano dietro è immenso, e viene portato interamente in eredità in questo nuovo disco, Elwan, "elefanti", registrato nel deserto americano, per sentirsi un po' a casa migliaia di chilometri lontano.

Il senso dell'urgenza, dell'impossibilità di adeguarsi, della lontananza, sono tutti fili conduttori dell'opera dei Tinariwen, profughi del deserto, da decenni in giro per il mondo, con il paradosso di essere cacciati dalla patria ma essere accolti trionfalmentenel resto del mondo. Gli elementi tipici della loro musica ci sono tutti, chitarre desertiche, ritmi ipnotici, linee di basso sincopate, strisciate, in un miscela già rodata ma mai ripetitiva e che non dà segni di stanchezza. Notevoli i riff di chitarra in Tiwàyyen, Imidiwan N-Akall-in, degni dei migliori ed ispirati riff del rock, o ancora ballate tuareg come Nizzagh Ijbal, Ittus, Talyay, che portano con sé una carica di nostalgia che va al di là delle parole e dei significati. Mentre il singolo Tenere Taqqal è una ballata che parla di cos'è diventato il deserto oggi, una landa desolata e crudele, accompagnata da un video onirico e potentemente poetico prodotto da Axel Digoix. Notevole anche la traccia conclusiva Fog Edaghan, con intro strumentale di flauto.

Al termine delle tredici tracce, capiamo che ascoltare un disco dei Tinariwen è come chiudersi in un mondo parallelo, un'esperienza totale. In parte il disco è stato registrato nel 2014 ai Rancho de la Luna studios nel deserto Californiano del Joshua Tree National Park, con l'aiuto di alcuni ospiti come Matt Sweeny, Kurt Vile, Alan Johannes (produttore per i Queens of the Stone Age) o Mark Lanegan. Il resto è stato completato due anni dopo a M'Hamid El Ghizlane, un'oasi nel sud del Marocco, vicino alla frontiera algerina, dove la band ha organizzato in una tenda una sessione con musicisti locali berberi. L'esilio e la lontananza generano da un lato una visione romantica dell'esiliato in sé, dall'altro una visione mitica della propria terra e di un passato migliore, anche se forse solo ideale. Il punto di forza dei Tinariwen è proprio questo: rappresentano terre lontane, tempi passati distanti anni luce dal nostro quotidiano, che ci fanno rimpiangere anche a noi, esuli del tempo, quanto abbiamo perso ma nel contempo ci fanno sentire più "puliti", perché apprezzandoli ed acclamandoli sosteniamo la causa di questi sei musicisti profughi, ormai famosi, mentre chiudiamo gli occhi verso quelli poveri e senza speranza che abbiamo alle nostre frontiere.

Nonostante la nostra ipocrisia, un grande disco, indispensabile ed urgente.


    


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