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New York City Blues di
Yuri Susanna (27/11/2017)
Dalla copertina del suo secondo disco solista Shilpa Ray ammicca al nostro
immaginario dei tardi anni '70, quando il verbo rock rimava con le strade in bianco
e nero della metropoli e le chitarre erano armi improprie che fendevano l'aria
satura di neon della Bowery o i contorni umidi dei marciapiedi del Bronx. Artista
giovane ma spiritualmente legata alla cultura newyorchese della prima new wave,
la Ray compie un'operazione che sta tra la nostalgia del passato e l'aggiornamento
al presente di quella mitopoiesi che da sempre aleggia intorno alla città di New
York. Alla prima - la nostalgia - rimanda il linguaggio utilizzato, che parte
da un rock nervoso e affilato che mastica insieme Television e Patti Smith Group
in un bolo di ancestrale rassegnazione blues (la sua voce) e nichilismo punk (le
sue parole) e approda a un romanticismo noir virato camp - tra il musical di Broadway
e le New York Dolls.
Il secondo - l'aggiornamento - è affidato al punto
di vista della poetessa/narratrice, che spinge lo sguardo nei bar del Lower East
Side, negli appartamenti in affitto, nei treni di pendolari della MTA e nei magazzini
del lavoro precario e sottopagato. "Work Work Work/Die Die Die" è la sardonica
constatazione che accompagna l'indolenza quasi-reggae di Add
Value/Add Time e riassume la realtà in cui si muove la voce narrante.
Canta in prima persona, Shilpa Ray, ma nei suoi versi si coagula l'ansia generazionale
di chi deve arrivare alla fine del mese in una città che ti spreme l'anima lasciandoti
vuoto e spaventato. In cui il sogno dell'easy money si è ridotto alla pura necessità
di sopravvivenza, in un contesto freddo, brutale e senza via d'uscita. E' l'anima
della New York di oggi che, come sempre accade nel mito, è figura di qualcosa
di più ampio, forse dell'anima del mondo occidentale tutto, beatamente smarrito
in un sogno narcotico di opulenza. Rovesciando come un guanto l'urlo ginsberghiano,
la canzone più affilata e punk del disco, EMT Police
and Fire Department, prova a svegliarci dal torpore: "These are not
the best minds of my generation/Destroyed by madness/Hysterical naked/These are
not the best minds".
Per mettere in scena quest'anima ferita, vecchi fremiti
doo wop anni Cinquanta vengono rivestiti dei panni del garage rock revival mentre
i talkin' di Patti Smith e Lou Reed si nascondono nel rap di Revelations of
a Stamp Monkey. E' la voce della città, proteiforme ma in fondo sempre riconoscibile,
con i suoi toni stridenti e i suoi vividi contrasti: come accade in Manhattanoid
Creepozoids, dove una vicenda di violenza e stupro si stempera in una
sorta di straniante cocktail lounge. La musica di Door Girl è una
cartolina in bianco e nero spruzzata di vernice viola. Soprattutto, è un attraversamento
dell'immaginario che non lascia prigionieri, in cui il rock si riappropria della
funzione di rappresentare il mondo e non solo di occuparne il tempo. E' solo un'illusione
- ma non è questo il compito dell'arte? - e dura solo 47 minuti, ma nessuno ci
può impedire di riviverla quante volte vogliamo: è sufficiente far ripartire il
disco da capo.