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minimalismo di
Gianuario Rivelli (10/06/2016)
Ai
tempi di Sigmund Freud il rock era ben lungi dall'essere inventato, ma è da presumere
che il dottore austriaco si sarebbe volentieri occupato della band di cui scriviamo
oggi: infatti il duo Max Kakacek (chitarra) e Julien Ehrlich (voce e batteria)
ha dichiarato che Whitney è il nome della personalità che soggiace al loro
songwriting, una figura terza ed immaginaria che può configurarsi come l'autore
occulto, l'ectoplasma che ha messo giù le note sul pentagramma. Non sappiamo se
accreditarne il merito a Whitney o ai due autori in carne ed ossa, fatto sta che
questo esordio è da sottolineare per qualità, chiarezza di idee, personalità.
Melodie irregolari, suoni che affondano le loro radici nei benedetti decenni passati,
chitarre sfuocate e un eccellente uso dei fiati fanno di Light Upon the
Lake un gioiellino inaspettato.
Kakacek e Ehrlich, ragazzi dalla
faccia un po' così, dopo lo scioglimento dei Smith Westerns di cui facevano parte,
si erano ritrovati quasi per caso come coinquilini in un appartamento di Chicago
ed avevano iniziato a scrivere senza particolari pretese ("L'abbiamo presa come
una cosa divertente da fare e basta. Non abbiamo mai voluto costringerci a scrivere
una canzone. E' semplicemente successo molto naturalmente"). Sono finiti poi in
California, ospitati e coadiuvati da Jonathan Rado dei Foxygen, a rifinire le
loro canzoni solo apparentemente malinconiche e indolenti (in questo il timbro
vocale di Ehrlich gioca un ruolo non indifferente), in realtà confortanti e luminose.
Se vogliamo semplificare parlando di generi, non è folk e non è pop, non è indie
e non è alternative rock, ma tutte queste cose messe insieme. No
Woman ne rappresenta il manifesto ed è una grande canzone: tromba in
apertura e sul finale, incedere pigro, toni autunnali, chitarra che vibra quasi
svogliata. Non parrebbe avere le caratteristiche per piantarsi in testa ed invece
lo fa. L'altro brano che svetta è Golden Days:
California con qualche nuvola in cielo e poche tavole da surf, qualche seme psichedelico
e aperture orchestrali, puro distillato anni 70 in cui ci si abbandona trasognati.
Impossibile non citare anche No Matter Where
We Go, deliziosa rilettura dell'epos del viaggio e del movimento in
modalità Whitney ossia a velocità di crociera, con organetti vintage e la solita
melodia sghemba. Tuttavia nel patrimonio genetico dei due ragazzi è ben presente
anche un'attitudine pop come si evince dal pallido sole che scalda Follow
(elogio funebre per il nonno di Ehrlich) e da The Falls, giocosa e ciondolante
con le sue chitarre byrdsiane. E non mancano dolci percorsi folk, sognanti e consolatori
come Dave's song e la stessa title track. Tutto estremamente godibile.
Classico e contemporaneo al tempo stesso, l'aureo minimalismo dei Whitney può
essere una delle colonne sonore dell'estate di chi ama farsi sorprendere e non
si accontenta di percorsi scontati. Uno degli esordi più interessanti dell'anno.