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indie rock landscape di
Fabio Cerbone (16/04/2016)
Non
so quali interessanti attività proponga Montclair, New Jersey, ma presumo che,
come molti altri "non luoghi" dimenticati del mondo occidentale, formare una rock'n'roll
band sia la via più veloce e semplice per uscire da una certa monotonia di provincia,
nemmeno tanto distante dalla nostra. Deve essere andata così anche per Evan Stephens
Hall, che dalla sua cameretta ha cominciato a descrivere sentimenti ed emozioni,
spesso di inadeguatezza, rispetto a ciò che lo circondava: amicizie, passioni,
insuccessi. È la formula più vecchia dell'indie rock, quanto meno quello cristallizzato
nel suo periodo artistico più fertile, in fondo lo stesso a cui fanno riferimento
i Pinegrove, piccola band fuori dai giochi e non allineata al gusto del
suo tempo. Cardinal è un disco breve, otto brani, e uniforme per
tematiche e suoni, che evoca suggestioni sopite, le stesse che, qualora siate
cresciuti musicalmente in un decennio preciso (diciamo a grandi linee tutto ciò
che è passato dal post-grunge della metà dei novanta e ha raggiunto il nuovo millennio)
faranno affiorare numerosi ricordi.
Dopo un rodaggio fatto di concerti
locali e registrazioni casalinghe, nelle più pura estetica del "do it yourself",
finite nella raccolta antologica Evertything So Far, la band formata da Hall con
i fratelli Zack (batteria) e Nick Levine (chitarre) ha lavorato su forma e sostanza
delle canzoni: Cardinal è il risultato più coeso a cui potessero ambire, che all'indolenza
delle melodie, a quell'espressione nervosa e chitarristica dell'indie rock di
cui sopra, ha aggiunto esplosioni power pop, evocando in un colpo solo certe impressioni
country alternative della prima era (ricordate i Wilco di AM e Being There?),
il sentimentalismo di band come gli Okkervil River e l'immediatezza rock dei Built
to Spill agli esordi (Visiting e Size of the Moon,
complice anche una somiglianza del timbro vocale di Hall con Doug Martsch), magari
ripassati a bagno nei ganci pop degli Weezer. Ci sono scampoli di tutto questo
nei Pinegrove, ma anche canzoni di una disarmante semplicità, un po' come la copertina
minimalista e astratta, curata dallo stesso Hall, che pare sbucata da uno studio
geometrico di Mondrian.
L'appartente pigrizia da manuale del rock provinciale
americano si colora di piccoli dettagli roots, un banjo, una pedal steel, ma in
prima linea restano le chitarre palpitanti di Old Friends,
che ha la sua speculare faccia nella chiusura di New Friends, vecchio brano
già in repertorio che la band ha rivisto e corretto per l'occasione con un piglio
rock più immediato, una brezza di melodia e scintillio chitarristico. È la stessa
variabile che distingue tutti e otto gli episodi, a volte attendisti e verbosi
in prima battuta, pronti però ad esplodere in dolci caramelle di armonioso indie
rock (Aphasia, Waveform), oppure fin
da subito all'arrembaggio con il passo entusiasta del migliore guitar rock (Then
Again). Affabili, i Pinegrove hanno già conquistato molta critica americana
con il loro pregevole dejà vù indipendente: non possiamo che accodarci al plauso
generale.