File Under:truth
& noise di
Yuri Susanna (02/04/2016)
Una
chitarra affilata come un bisturi, il feedback che monta fino al livello di saturazione...
poi, il respiro di un colpo di batteria e, dietro, la voce di Mould che si domanda
"Can I found some truth within the noise?". Domanda retorica? Forse. Ve ne propino
una anch'io: esiste una via migliore dei quattro minuti scarsi di Voices in
My Head per avere un assaggio della poetica di Bob Mould? Lui c'ha
provato, nel corso degli anni, soprattutto tra la seconda metà dei Novanta e la
prima parte degli anni zero, a elaborare una scrittura alternativa, a farsi prendere
la mano dall'elettronica e quant'altro, diamogliene atto. Ma è bastato che tornasse
alla formula del power trio da cui era partito trent'anni prima perché tutti ci
rendessimo conto di quanto avevamo ancora bisogno di quel Mould lì, quello delle
docce elettriche di tre/quattro minuti, delle melodie improvvise che squarciano
il furore delle chitarre. E abbiamo ritrovato un autore dalla cifra unica, pur
se in fondo semplice e anche ripetitiva. La (ricerca della) verità e il rumore:
tutto qui, ma provateci voi. Mould non solo ci prova: ci riesce, con un'integrità
che ne fa il più importante autore della sua generazione (se la gioca con Paul
Westerberg, diciamo).
Dalla rinascita artistica e commerciale di Silver
Age sono passati quattro anni e siamo ora al terzo capitolo di quella
che potremmo considerare una "trilogia della maturità". Da una stazione all'altra
il paesaggio muta poco, la band è affiatata e picchia duro, la formula non varia.
Patch the Sky dei tre dischi è forse quello che più apertamente
riallaccia il discorso interrotto con la fine dell'avventura Sugar, conclusasi
bruscamente nel '95 dopo due album e un ep che hanno permesso a Mould di pagare
il mutuo e accantonare un gruzzoletto per la vecchiaia, spedendo un paio di brani
nelle charts (cosa che, nonostante il culto che li circondava, agli Hüsker Dü
non era mai riuscita, neanche dopo il passaggio alla Warner nel 1986). Jon Wurster
ai tamburi e il bassista Jason Narducy suonano sempre più come una versione aggiornata
degli Sugar, e questo spiega l'attenzione ai tempi medi e le sempre più evidenti
aperture alla psichedelia. Non che manchino gli assalti elettrici sparati contro
il muro - a un catalogo già ricco di classici di questo tipo possiamo aggiungere
almeno The End of Things, Pray for Rain
e la sveltina in odore di Hüsker Dü di Losing Time -
ma sono bilanciati da brani più introspettivi, anche se scolpiti su pareti di
feedback, come Hold On e la devastante Black Confetti,
quando non apertamente avvolti in spirali di psichedelia quasi westcoastiana (in
Losing Sleep per un attimo abbiamo l'allucinazione uditiva di essere finiti
in un disco di Paul Weller).
E così Patch the Sky è suo il disco più "orecchiabile",
stando a quanto ha sentenziato Mould stesso. Ma anche il più oscuro. A uno come
lui, che da sempre intende la musica come una forma di terapia, ultimamente non
è certo mancato il materiale da rielaborare; alle meditazioni sull'andare del
tempo che intessevano le liriche di Silver Age si sono aggiunte su Beauty
& Ruin quelle sulla morte e la perdita, che del tempo sono inevitabili
ancelle. Negli ultimi anni i lutti si sono accumulati (il padre, nel 2013, la
madre un anno dopo): non stupisce l'alone plumbeo che grava anche sulle liriche
di Patch the Sky, ma come sempre in Mould la rabbia non cede alla disperazione,
anzi è segno di una determinazione che spinge a guardare negli occhi i propri
demoni e a battersi con essi. "I keep searching, hoping, waiting for the sun that
always shines so bright on everyone", è l'affermazione che sigilla in qualche
modo l'opera nella conclusiva, ieratica Monument.
Solo un altro disco
di Bob Mould, a conti fatti. Quindi indispensabile.