File Under:
psych folk rock di
Fabio Cerbone (04/12/2015)
L'iconografia
suggerisce una relazione con stagioni passate: il barbuto Dave Heumann
fronteggia un po' minaccioso la copertina, come si trattasse di un misconosciuto
vinile appartenuto a un folksinger di epoche sepolte, tramando fra i margini di
certa musica "cosmica" degli anni Settanta. D'altronde, da quel bacino ha sempre
attinto il songwriting di questo autore e chitarrista, già collaboratore di Bonnie
Prince Billy, ma soprattutto guida degli Arbouretum, punta di diamante di quell'indie
rock votato a trame psichedeliche oscure e rinnovamenti del linguaggio folk rock.
In pausa, forzata o meno, è ancora da capirlo, dalla sua principale band, Heumann
si attiene al copione anche nella versione solista, nonostante la sua musica si
faccia più tenera e luminosa, certamente meno ostica e incendiaria rispetto ai
passaggi chitarristici svelati con i vecchi compagni.
Probabilmente abbiamo
a che fare con materiale troppo personale per essere speso in democrazia con il
gruppo. Ecco allora l'idea di un viaggio in solitaria che parta dalla tradizione
- magari da quella Greenwood Side rielaborata
per l'occassione, tipica "murder ballad" (la storia di una madre che uccide le
sue due gemelle) che serpeggia fra l'epico e la tragedia - e approdi al presente,
fatto di riflessioni tra l'universale e l'intimo, con quella scrittura sempre
un po' metafisica che contraddistingue il lavoro di Heumann (I went out to look
for tinder/ and found myself on fire). Qui si fa aiutare da un cast di musicisti
per lui nuovi e quindi stimolanti: Walker Teret dai Lower Dens, Mike Kuhl, Jenn
Wasner e il pianista Hans Chew, ma soprattutto dalla regia accorta di John
Parish (PJ Harvey, Giant Sand), che mette a bagno le ballate iponotiche e
l'acido folk di Heumann in visioni ad ampio spettro, fornendo una sensazione di
enorme spazio alle composizioni. Si parte con il vibrare rock imbambolato di Switchback
e si ha l'impressione di un passaggio efficace dall'avventura degli Arbouretum
al presente. Heumann è certamente più controllato, classico nell'esposizione,
ma il terreno battuto è molto simile. Questo slancio elettrico, così come un accenno
di deragliamento verso l'elettricità più scura si avrà poi nel finale, attraverso
il crescendo di Ends of the Earth, episodio
fra i più ascrivibili alla vecchia band.
Nel mezzo invece Here in
the Deep si attiene ad una sceneggiatura elegante e rarefatta, che esalta
le melodie circolari di Heumann, il suo indelebile legame con il tempo del folk
inglese (Richard Thompson resta una figura di paragone sempre presente sullo sfondo),
sperimentando anche arrangiamenti più eccentrici del solito (la squisita andatura
di Cloud Mind) e saliscendi folk rock più cristallini di "byrdsiana" memoria
(sentitevi nel caso Ides of Summer e l'impasto
delle voci). Magmatico e psichedelico all'occorrenza (nel vertice del disco, Holly
King On a Hill, battuta da percussioni e morbide chitarre aviluppate),
tormentato fra i limiti di un space rock misterioso (Morning Remnants,
la cacofonia finale di By Jove) e la consolazione di una tradizione acustica
(l'affascinante strumentale Leaves Underfoot), Here in the Deep è un album
che conquista e si insinua proprio grazie a certe sue ripetizioni, quasi ossessive,
confermando Dave Heumann come un autore dal fascino oscuro.