Courtney Barnett
Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit
[
Marathon Artists/ Self
2015]

www.courtneybarnett.com.au

File Under: new aussie generation

di Yuri Susanna (15/05/2015)

Dove sono finite le riott grrrl? Non sono uscite vive dagli anni Novanta, verrebbe da pensare. A guardarsi in giro, pare che oggi funzioni soprattutto l'archetipo della chanteuse un po' ombrosa, stile Cat Power per intenderci (le varie Sharon van Etten, Rachel Yamagata e via andando), oppure quello - forse il trend più significativo e duraturo - della folksinger introspettiva con la sua Martin a tracolla, nel ruolo della brava nipotina di Joni Mitchell o Vashti Bunyan. Di queste ne abbiamo viste spuntare a mazzi, alcune davvero brave, chi lo nega (non è un mistero per nessuno che abbiamo un debole per Laura Marling o Anais Mitchell), altre un po' meno, ma ciò non toglie che ogni tanto ci piacerebbe assistere a qualche deviazione di rotta (non necessariamente una ragazzaccia, ma perché no), tanto per sperare che quella linea che univa un tempo Patti Smith a Liz Phair non si sia spezzata. Qualche soddisfazione arriva dal mondo roots (vedi Lydia Loveless), ma alla fine si sono dovute rimettere in pista delle Sleater Kinney in gran spolvero per colmare il vuoto.

Forse qualcosa, agli antipodi, si sta muovendo. Una ventiquattrenne di Melbourne dalla frangetta sbarazzina ha calamitato attenzioni trasversali che potrebbero sembrare sospette e fuori luogo se, all'ascolto di Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit, non risultasse evidente che abbiamo per le mani una raccolta di brani di sorprendente spontaneità e vigore, puntellati da un'ispirazione alternativamente aspra, sognante o naif, ma sempre sicura della sua forza espressiva. Che il risultato sia conseguito con ingredienti poveri, della "cucina" tradizionale (chitarra basso e batteria; qualche spolverata di organo, quanto basta) rende ancora più sorprendente l'esito finale. Questione di calibratura nelle dosi, forse. Fatto sta che le dinamiche di marca Pixies di Elevator Operator si sposano a meraviglia con le vibrazioni Sonic Youth di Pedestrian at Best, mentre il garage-pop à la Lemonheads (An Illustration of Loneliness) sfocia con naturalezza nel blues destrutturato, pavementiano di Small Poppies. Anche gli episodi più leggeri, come le reminiscenze velvettiane di Dead Fox o la new wave orecchiabile di Aqua Profunda, non suonano affatto buttati lì per caso.

Quando il passo rallenta, arrivano le sorprese più toste: i brani più dilatati ostentano un'anima borderline, sospesa tra la tensione liberata (Kim's Caravan) e il divagare onirico (le Breeders-go-country di Depreston). Anche avere qualcosa da dire aiuta, e in quest'ambito Courtney Barnett sciorina una poetica in bilico tra il surreale e il concreto, permeata di un'attenzione lynchiana (nel senso di David) ai dettagli quotidiani meno ovvi. Con anche un pizzico di cinismo. Immaginate Jonathan Richman e Robyn Hitchcock che incontrano Stephen Malkmus e insieme scherzano col fantasma del grunge. Come quella generazione là, che era stata bollata con una bella "x", anche quelle che racconta la Barnett nelle sue liriche sono esistenze che si definiscono in negativo, per quello che non sono, più che per quello che sono: "I don't know quite who I am" canta esplicitamente in Small Poppies, ma è un po' tutto il disco che gira intorno al "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" di montaliana memoria. Quello che non vogliamo noi, invece, è che vi perdiate il disco più fresco di questa prima parte dell'anno.


    


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