La parabola (in ascesa) di Damien Jurado è quanto mai singolare: sfiorando
i vent'anni di carriera - tanto è passato dagli esordi che attirarono le attenzioni
di una etichetta come la Sub Pop, intenzionata ad allargari oltre le maglie del
grunge al crepuscolo - il folksinger di Seattle pare avere raggiunto solamente
oggi, grazie al binomio artistico indissolubile con il produttore Richard Swift,
una piena consapevolezza dei suoi mezzi, una peculiarità di linguaggio che è assolutamente
riconoscibile, diremmo unica nel panorama del moderno cantautorato indipendente.
Il percorso è stato costante e in crescita nelle ambizioni musicali, dal primo
approccio di Saint
Bartlett alla rivelazione di Maraqopa,
album nel quale la "dipartita" verso approdi inediti, un intruglio di psichedelia,
folk a bassa fedeltà, momenti di straniante melodia pop, aveva indicato
una coraggiosa forma di espressività.
Non soprende dunque constatare che
il qui presente Brothers and Sisters of the Eternal Son rappresenti
una sorta di secondo capitolo del precedente lavoro o se preferite un ulteriore
messa in scena delle tematiche di ricerca spirituale e umana che quel disco aveva
svelato. Il concept che si cela dietro le canzoni è molto semplice e misterioso
al tempo stesso: l'abbandono della società americana, simbolo forse per l'autore
di una più grande deriva occidentale, da parte di un uomo che decide scientemente
di nascondersi al mondo e intraprendere un viaggio in direzione ignota, dove incontrerà
una serie di personaggi (una lunga sequenza di caratteri "Silver" fornisce il
titolo a cinque episodi del disco). Scompare probabilmente, o si rifugia chi può
dirlo, dentro quella stessa magica cupola che campeggia sulla copertina. Da un
certo punto di vista è lo stesso Jurado ad essere protagonista della storia, da
un'altra angolazione è un carattere astratto, mantenendo una qualità enigmatica
che la musica di questo artista ha sempre posseduto.
In questa occasione
persino più del solito, perché se in superficie Brothers and Sisters of the Eternal
Son non si allontana troppo dalle fervide intuizioni del suo predecessore, è altrettanto
vero che vi scava in profondità, aumentando il tumulto di suoni sintetici, di
riverberi, di evasioni psichedeliche e soprattutto di ritmiche che il produttore
Swift ha deciso di calare sul tavolo, dalla fluttuante Silver
Timothy al piccolo capolavoro Silver Donna,
centrale forse nello svolgimento dell'intero album, che incalza sul groove di
derivazione dub delle percussioni e sul falsetto caratteristico dello stesso Jurado.
Nella prima ideale facciata si respira l'aria più sperimentale e libera: lo spettrale
tappeto di synth orchestrale in Magic Number,
il familiare trait d'union di Return to Maraqopa
(da qui il collegamento con il passato), luogo mitizzato al nucleo della storia,
quella specie di western immerso in un rock "spaziale" che risponde al nome di
Jericho Road, da qualche parte fra My Morning
Jacket e Flaming Lips. Il secondo tempo invece, superata la vetta turbolenta della
citata Silver Donna, sembra lentamente diradare le nebbie e approdare alla
timidezza acustica di Silver Katherine e Silver
Joy, antica radice folk dell'autore Damien Jurado, prima di chiudere sull'imbabolata
filastrocca pop di Suns in Our Mind, fra interferenze
e "pasticci" melodici che rilfettono quasi un sapore beatlesiano.