Martin Zellar & The Hardways
Roosters Crow
[
Owen Lee  
2012]

www.martinzellar.com
www.myspace.com/martinzellar


File Under: Americana, roots rock

di Fabio Cerbone (28/02/2012)

Superstite di una stagione di "nuovi springsteeniani" fioriti all'alba degli anni Novanta, caso di improbabile sostituzione artistica, un po' come avvenne con il desaparecido Bob Dylan durante la turbolenta fase dei 70s, Martin Zellar festeggia le venticinque primavere di carriera musicale, in verità tornando ad incidere dal lontano 2002, ultimo segnale lanciato al mondo grazie a Scattered. Il songwriter di Minneapolis, già leader delle leggende locali Gear Daddies e poi titolare di qualche discreto lavoro solista (si ricorda soprattutto l'esordio per la Rykodisc, Born Under, era il 1994), ha letteralmente varcato da tempo la frontiera, vivendo oggi con la famiglia nel Messico centrale. Il suo ritorno in patria ha dunque il sapore di un azzardo, un rimettersi in gioco che non prevede soltanto un nuovo album e una nuova produzione (questa volta in quel di Austin, con musicisti texani dal ricco pedigree), ma anche un piccolo tour che lo riporti lungo le highways americane abbandonate da una scelta di vita coraggiosa.

Impossibile prevederne gli effetti sulla sua persona e non chiedersi se rischi di farsi tornare la voglia della strada e del rock'n'roll; di certo però il suo Roosters Crow risulta una raccolta di ballate tutto cuore e spirito blue collar che non fa che ribadire le sue oneste origini, senza vergognarsi di accuse di scarsa originalità. Una piccola differenza però risalta agli occhi, basterebbe scorgere la lista dei musicisti con Lloyd Maines al dobro e pedal steel, Bukka Allen all'accordion e organo o lo stesso Pat Manske (Joe Ely, Flatlanders) che produce e imprime naturalmente un accento Americana al tutto. Brani come Seven Shades of Blue, Give & Take (All the Love that You Can), Where Did the Words Go? confermano la timida svolta roots (carattere che peraltro non è mai mancato al nostro) e certamente segnalano una scrittura più introspettiva, infarcendo Roosters Crow di tempi medi e ballate dai sentimentali contorni country rock (Took the Poison, Wore me Down, accoppiata non a caso posta ad apertura di raccolta, come una sorta di manifesto del nuovo corso).

Le chitarre elettriche tengono insomma il freno tirato, sono un po' come braci calde sotto la cenere: escono sulla distanza (I'm That Problem la più sbarazzina) e servono a far crescere il pathos. Martin Zellar d'altronde ha sempre mostrato una predilezione per certi crescendo romantici e la sua voce strozzata ma credibile in Running on Pure Fear e nella stessa title track torna esattamente all'evocata stagione di sbornia "springsteeniana", quando Will T Massey o Michael McDermott formavano una compagnia su cui scommettere. Se pensate però che Roosters Crow sia solamente uno sfogo di nostalgia vi sbagliate: c'è comunque una dignità - e anche una onesta forma artistica, va detto - che rende Martin Zellar e i suoi Hadways (c'è ancora la sezione ritmica formata da Dominic Ciola e Scott Wenum al suo fianco) outsiders per eccellenza.



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