File Under:folk
rock, country rock di
Davide Albini (01/02/2013)
Il
nuovo album di Ad Vanderveen si chiude sulle note dell'unico brano non
originale scelto per la raccolta, una cover di When I
Paint My Masterpiece di Bob Dylan, ma sono pronto a giurare che il
vero faro della sua scrittura sia Neil Young. In effetti lo stesso classico dylaniano
prende un'aria vagamente dolciastra e west coast che non gli appartiene del tutto,
come a ribadire che il folk rock e le ballate del songwriter olandese guardano
più all'esperienza dei 70s californiani, in generale a tutta quella generazione
di autori dall'animo più tormentato e intimista. Non è la prima volta che
arriviamo a queste conclusioni presentando la musica di questo non più giovanissimo
giramondo: europeo nel passaporto ma americano nell'anima (ha registrato a Nashville
e più volte ha affrontato tour negli States), Vanderveen incide da anni con la
Blue Rose (Days of the Greats e Faithful To Love la più recenti testimonianze),
portando il suo messaggio ad incontrarsi con colleghi di un certo blasone.
Ha
collaborato infatti con Iain Matthews, David Olney, Al Kooper e John Gorka e per
questo Driven By a Dream (i sogni rimandano ancora a quella stagione
lontana di cui sopra) si è rivolto alla produzione del britannico Matt Butler
(Paul McCartney e Pink Floyd nel suo importante curriculum), registrando parte
del materiale negli storici Rockfield Studios in Galles e parte in terra olandese,
con un fedele combo di musicisti locali, tra i quali spiccano il polistrumentista
Timon van Heerdt e l'ospite Simon Moore all'hammond. A cinquantasei anni e dopo
una ventina o quasi di album in saccoccia (un po' altalenanti come qualità, ma
spesso è il prezzo da pagare per l'indipendenza), Vanderveen realizza forse quello
che potrebbe essere considerato uno dei suoi lavori più completi, antologia di
malinconiche e agrodolci ballate che in Time Has Told
e Rest in Peace riportano alla grazia di Harvest
(una pietra miliare per stile e atmosfere), mentre nei momenti più elettrici (la
stessa title track e Would't that Be a Shame)
non perdono mai di vista la loro forza melodica.
La voce di Ad Vanderveen
aiuta molto in questo senso: è pacata e infonde serenità ai versi, che prendono
spunto da un mondo in subbuglio sul quale occorre calare una ricerca di sé stessi
e della propria direzione umana. Gli spunti nell'album sono diversi e anche se
non avranno il gusto della sorpresa, garantiscono una certa solidità che è spesso
sinonimo di semplici, raffinate canzoni, dalla melodia retrò e country oriented
di So happy I Could Cry all'acustica (piano e chitarra) di Vicious
Circle, per approdare alla presenza elettrica di Calm
Before the Storm. Probabilmente un'opera folk rock poco appetibile
al di fuori degli affezionati di genere, anche perchè qui tutto omaggia
i propri eroi musicali, eppure sono sicuro che varrebbe la pena sentirlo dal vivo
nel suo attuale tour europeo.