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folk rock di
Marco Restelli (04/10/2012)
Circa
un anno fa, quasi per caso, nel mio negozio di dischi di fiducia di Roma, mi sono
ritrovato fra le mani il disco di un cantante inglese che ancora non conoscevo.
Si trattava di Tigers Will Survive, di Ian Matthews (già membro dei Fairport
Convention) e devo ammettere che, mentre lo ascoltavo, sono rimasto estasiato
da quella voce celestiale. Come spesso mi accade in questi casi, poi, è cominciata
la smania di sentirne di più ed approfondirne meglio la discografia e così è stato
praticamente inevitabile imbattermi, quasi subito, in un album eccezionale come
In search of Amelia Eearhart dei Plainsong, di cui Matthwes rappresenta
voce ed anima, che nel 1972 ebbe un notevole successo, anche commerciale. Dopo
quell'exploit tuttavia, la band si è sostanzialmente inabissata e ha vissuto una
faticosa rincorsa alla sporadica reunion di turno per la pubblicazione di dischi
(l'ultimo, Pangolins, è del 2003), che non hanno mai trovato grande riscontro
di pubblico se non dei devoti fan del cantante e della sua principale spalla Andy
Roberts.
Oggi esce questo Fat Lady Singing con il quale
la band pubblica le session che potremmo definire "live in studio" (pare che fosse
effettivamente presente una selezionata audience), di 9 anni fa, in una veste
con brani che toccano un po' tutto il repertorio della band. Delle 19 canzoni
scelte, certamente alcune meritano una certa attenzione come Guiding
Light (dal succitato best seller), Here Comes
the Rain e Under the Volcano, tutte
con l'armonica di Julian Dawson in primo piano e quei coretti stile Eagles
o America sullo sfondo tali da renderle ancor più fresche e stradaiole. Anche
All New People sembra perfetta per esaltare
la voce di Ian che, pur con le diverse "rughe" che il tempo inevitabilmente le
ha procurato, resta incantevole come agli esordi. La ballata midtempo di Pilgrims,
da par suo, guadagna facilmente lo scettro di melodia più accattivante, tenendo
conto che in alcuni punti sembra addirittura di sentire echi dei poppeggianti
Beatles di Rubber soul. A dire il vero non scherza neanche, quanto a bellezza,
la lenta Barbed Wire Fence, ma a metà disco
i giochi sono già praticamente finiti e per godere di nuove emozioni bisogna attendere
la dolce e biografica True Story/ Sweet Amelia,
molte tracce più in là.
Al riguardo, ritengo che la scelta del set (praticamente
acustico) sia il grande limite di questo disco. Mancano ad esempio all'appello
pezzi strepitosi come For the Second Time e Side Roads che, a mio avviso, avrebbero
meritato di prendere il posto di altri (Yo Yo Man ad esempio), quasi anonimi.
Sarebbe un po' come avere due belle Ferrari e lasciarle in garage, se mi passate
il paragone. Nel complesso quindi, come operazione rilancio in vista dell'attuale
tour d'addio, i Plainsong avrebbero potuto limare meglio (anche numericamente,
direi che sarebbero bastati 10/11 brani) il tutto e magari pescare dal loro baule
da viaggio degli abiti di scena di seta, piuttosto che di lana. Sono dell'idea,
infatti - e forse è un concetto anche scontato - che quando si riempie un album
con diverse canzoni non proprio all'altezza, il livello generale ed il giudizio
finale non può che risentirne negativamente, diminuendo il peso specifico delle
diverse perle in esso contenute. Forse questa lezione servirà a Matthews & C.
quando e se concepiranno, un giorno, un vero e proprio greatest hits.