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rock, texas troubadour di
Davide Albini (26/04/2012)
Un
altro giovane songwriter da Austin? Calma, mettetevi comodi e vediamo di ragionare:
d'altronde, come potrebbe spezzarsi quella catena di produzione infinita che da
anni alimenta la scena roots cittadina, visto che non è mai venuto a mancare quel
particolare rapporto fra maestri e allievi. Nel caso di Shawn Nelson dobbiamo
subito citare il nome di Robert Earl Keen: stilisticamente questo San Juan
Street è attraversato più volte da precisi riferimenti all'opera del suddetto,
quel caratteristico intreccio di country rock d'autore, fragranze del border messicano
e ballate folk. Inoltre i due si sono realmente conosciuti negli studi della Arista
qualche anno fa, quando Nelson fece i bagagli per Nashville tentando la fortuna
con un contratto esclusivo da autore. Nei bar della capitale del country fece
anche la conoscenza di Guy Clark (una bella fortuna, caro Shawn!), che in una
serata molto speciale (era appena morto l'amico Townes Van Zandt) insegnò qualche
segreto sul songwriting al nostro ragazzo.
Sembra quasi una sceneggiatura:
non so fino a che punto ci abbia ricamanto sopra Shawn Nelson e poco importa,
di fatto però dopo un ritorno ad Austin, un paio di band fatte e disfatte (Frontage
Road e Crazy Chester) e tre dischi di cui uno dal vivo al famoso club cittaino
Antone's, è arrivato oggi il momento di raccogliere tutte le idee. San Juan Street
in effetti mette molta carne al fuoco, a cominciare dalla produzione di Joel
Guzman (Joe Ely band) e dalle partecipazioni di Matt Slusher e Will Dupuy
(South Austin Jug Band) e di Trisha Keefer (The Trishas), quest'ultima spesso
un elemento chiave al fiddle. Più di un'ora e quattrodici brani in scaletta finiscono
inevitabilmete per essere molto generosi e ingombranti: un errore dettato forse
dalla voglia di mettersi in mostra, perdonabile perché in fondo Shawn Nelson ha
la stoffa per emergere in città e probabilmente nell'intero Texas, con quel ruspante
passo honky tonk in Nobody Got a Hold on Me
e Anna Lee e qualche melodia azzeccata (More
than California, dolce ballata country).
Siamo posizionati
dunque nel solco dei più classici troubadour texani, magari senza le vette di
scrittura del citato Clark, ma in quell'onesto gruppo di inseguitori che portano
l'acqua e fanno il lavoro dei gregari: Dreams in the
Desert con mandolino e accordion evoca le storie di confine, Down
There rispolvera il country elettrico più scopiettante e rurale, I
Can't Hide è genericamente più rock, mentre Mercy
conferma la facile propensione di Nelson per ottime melodie tradizionali. Nel
finale c'è anche spazio per qualche episodio un po' più "sperimentale" e fuori
dai canoni roots: Hollow Moon ad esempio,
dall'ambientazione vagamente soft rock tardi anni Settanta, oppure Daydreamers,
ritmica di impronta reggea. Fanno parte, come anticipato, di quella smania di
buttare dentro molti, troppi stimoli. Va bene così Shawn, la strada è
quella giusta.