Tom Kell
This Desert City
[
17° Recording  
2012]

www.tomkell.com
www.myspace.com/tkell


File Under: songwriter, west coast folk rock

di Davide Albini (19/04/2012)

Vi sbagliate, non si tratta della nuova versione deluxe dell'ultimo disco di Ryan Adams, anche se la somiglianza è evidente, ma ad ogni buon conto qualche "familiarità" musicale potrebbe persino risultare azzeccata. La differenza sta nel fatto che Tom Kell è un signore che ha superato abbondantemente la cinquantina e ne ha viste passare tante nel music business. Dubito che molti si ricordino di lui, almeno che non abbiate un frequentazione assidua della West Coast e dei suoi protagonisti più oscuri. Spostatosi sulla scena di L.A. dai primi anni '80, Kell è cresciuto artisticamente a Seattle nel decennio precedente, dove la sua prima band, The Skyboys, ha contribuito all'ondata country rock dell'epoca, aprendo per grossi nomi, da Emmylou Harris a Jimmy Buffett e Pure Prairie League, ma mai agguantando veramente il successo.

Kell si è quindi riciclato come autore (suoi brani sono finiti nel repertorio di Kenny Rogers e Nitty Gritty Dirt Band), firmando diversi contratti con importanti major discografiche e tentando anche la carta solista. La sua collaborazione con JD Souther e tutto il giro del soft rock californiano ha prodotto un paio di misconosciuti lavori: One Sad Night nel 1989 per la Warner e il successivo Angeltown per la Vanguard, dimostrazione di un talento apprezzato più dai colleghi (negli album menzionati sono presenti, tra gli altri, Bernie Leadon, Timothy B. Schmit, David Lindley…) che dal grande pubblico. Un sussulto ancora alla metà dei Novanta, passato inosservato, quindi il ritiro artistico, interrotto oggi dalla pubblicazione di This Desert City, una decina di brani prodotti da Jeffrey Cox che si giocano nuovamente la carta delle collaborazioni illustri. Il disco è una carrellata di "reduci" e bei nomi del giro rootsy losangelino: David Lindley naturalmente, ma anche le chitarre di Kenny Edwards (una vita con Linda Rondstandt e non solo), basso e batteria rispettivamente di Don Heffington e Bob Glaub, i cori di una rediviva Valerie Carter (altra meteora del genere e protetta di Lowell George ad inizio carriera).

Con queste credenziali This Desert City non fallisce il suo obiettivo: suonerà nostalgico e autoreferenziale, ma a chi apprezza da sempre il country rock d'autore e la manifattura di qualità delle canzoni avrà di che rallegrarsi da Which Road e Sometimes, delicate ballate elettro-acustiche da orizzonti desertici. In Texas on the 4th of July appare anche la lap steel di Greg Leisz e un accordion, con inevitabili profumi border e uno stile elegante che rimanda al Dave Albvin di King of California. Sul versante più "rurale" si collocano anche l'acustica Dove e Sands of Time, seppure lo stile intimista di Kell sia figlio legittimo, come accennato, della stagione rock westcoastiana, per cui episodi quali Hold On e I Wouldn't Trust the Moon rappresentano l'essenza di questo songwriter. A completare la scaletta anche due cover, non strettamente indispensabili, ma interpretate con un certo apprezzabile "manierismo": si distingue soprattutto la classica Don't Let me be Misunderstood, cui si affianca il classico beatlesiano Baby's in Black, rallentata e più vicina all'anima country della melodia.


   


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