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heartland rock di
Yuri Susanna (13/05/2013)
Drew Holcomb, da Memphis, ha l'aria del ragazzone buono e di sani principi,
cresciuto nell'humus di un'America aperta e volitiva, dispensatore di positive
thinking e tenace praticante di un ottimismo della volontà che lo spinge a scrutare
la luce di bontà che splende nell'animo del prossimo, più che a cercare il cuore
di tenebra nascosto nelle pieghe delle cose ("Hey, there's a good light, shining
in you. There's a magic in your eyes. Hey, there's a good light, shining through":
se lo dice lui...). Si è laureato con una dissertazione su "Springsteen e l'immaginario
di redenzione americano", e questo ce lo rende certo simpatico. Non bastasse,
in quattro dischi di lenta ma costante maturazione compositiva (il primo a suo
nome, gli ultimi tre condivisi con i Neighbors) ha tenuto viva un'idea
di Americana molto più adult-oriented di quella cui ci hanno abituato gli ultimi
anni di slittamento del genere verso l'indie rock. Difficile che la sua musica
possa piacere a chi sbava per Lumineers o Fleet Foxes, più facile invece che commuova
i reduci nostalgici della stagione d'oro del cosiddetto heartland rock.
La
semplicità delle liriche lo avvicina più a Mellencamp che all'amato Springsteen,
ma siamo in ogni caso ben lontani sia dalla sincera forza populistica del primo,
sia dall'immaginifica capacità mitopoietica del secondo. Holcomb lavora al grado
zero dell'espressività poetica, per così dire, ma non tutti nascono Leonard Cohen,
e se non si hanno eccessive pretese ci si può comunque accontentare. Musicalmente
invece Holcomb e i suoi "vicini di casa" qualche freccia al proprio arco ce l'hanno,
indubbiamente. E' buon artigianato roots quello che ascoltiamo in Good Light.
Una musica che dosa ingredienti ben assimilati in proporzioni calibrate, colpendo
il bersaglio più volte. Tanto che non è difficile trovarci dentro, in proporzione
variabile, un po' di sapori noti e facili da apprezzare: dal troubadorismo agrodolce
di marca Ryan Adams (ma senza lo spleen di Adams) al southern soul-rock di scuola
Derek Trucks Band (ma senza gli assoli di Derek), dal rock & roll à la Tom Petty
(ma con molto meno rock e qualche dose in più di country), al misticismo folk
di Ray Lamontagne (ma senza raggiungerne la profondità).
Detta così sembra
che manchi sempre qualcosa, a ben guardare. Probabilmente è vero, ma questo non
impedisce di gustare una raccolta di brani dannatamente piacevoli, confezionata
con suoni caldi e fragranti come pane appena sfornato (ok, non è una similitudine
molto originale, ma mi adeguo ai cliché delle liriche di Holcomb). Le radici gospel
di Another Man's Shoes, il country inzuppato
nel soul di Can't Take It With You e di Nothing
But Trouble, il sospiro folk di The Wine We Drink
(la voce della moglie Ellie Holcomb, contrappunto costante in tutto il disco,
qua emerge in primo piano), il crescendo di A Place To
Lay My Head e la voglia di ancheggiare un po' che accompagna Nothing
Like a Woman sono motivi sufficienti a suggerirvi di offrire una chance
a Good Light. Resta, certo, qualche dubbio sulla personalità di Holcomb. O meglio,
sulla sua mancanza di una personalità forte e caratterizzante. Ma in fondo è un
falso problema, almeno finché riuscirà a infilare una serie di belle canzoni come
queste nei suoi dischi.