File Under:singer-songwriter,
roots rock di
Marco Poggio (02/08/2012)
"Meglio
tardi che mai", è più che lecito pensare durante l'ascolto di Quirkophony,
debutto discografico a nome Bruce Gerrish. Il canadese d'adozione, ma americano
di nascita, non è infatti un novellino, avendo sulle spalle una carriera più che
trentennale, ma arriva solamente ora al tanto ambito traguardo dell'opera prima.
Musicista eclettico, il nostro, alterna alla propria attività di songwriter e
perfomer, quella di testimonial per l'azienda di prodotti musicali Mackie and
Digitech, per conto della quale ha tenuto svariate clinic anche qui nel vecchio
Continente. Quello che ci interessa maggiormente della sua personalità musicale
è ovviamente il primo aspetto, quel songwriting sbocciato in tenera età e affinato
con il trascorrere del tempo, complice anche una vita passata in larga parte sulla
strada. Anni intensi, con la fedele chitarra come unica compagna di viaggio, nel
corso dei quali tante facce e tante storie sono sfilate di fronte al cantautore,
originario del Minnesota. Storie che Gerrish ha interiorizzato per poi trasporle
su pentagramma, dando vita a una manciata di composizioni andate infine a comporre
l'ossatura di Quirkophony.
Il risultato di questo lungo lavoro di scrittura
sono tredici brani che attingono in egual misura al country, al roots rock e al
Texas Swing, a testimoniare come le radici musicali del nostro siano ben salde
nella tradizione del proprio paese d'origine. Già nell'opener I
wanna new life, con lap steel e mandolino subito in bella mostra e
dal più che contagioso refrain, o nella galoppante ed elettrica Man
down, emerge la sua predilezione per sonorità country roots, ricordando
in più di un frangente quel Robert Earl Keen, con il quale Gerrish sembra avere
ben più di un'affinità. Definite maybe e You
don't know shit from Shinola, virano invece verso il Texas Swing: nella
prima sono il piano e la lap steel a dettare il tempo, mentre nella seconda ampio
spazio viene lasciato a una sezione fiati in grande spolvero. Fiati che ritroviamo,
questa volta tuttavia d'impronta mariachi, anche in I
said I do but che, con tanto di fisarmonica, pare scritta per essere
suonata in qualche dimenticato bar di Tjiuana. Il lato cantautorale di Gerrish
emerge invece quando i tempi si rallentano, come nella buffettiana e solare, fin
dal titolo, A sunny place for shady people,
o nella ballata notturna, per sola chitarra acustica e piano, Tonight,
che rimanda al Lyle Lovett più intimista.
Le influenze musicali di un
lungo soggiorno in quel di New Orleans si avvertono nel folle esperimento sonoro
di Jumbo shrimp, nella quale le gioiose atmosfere
della "Big Easy" si fondono con stilemi country, un po' come se Willie Nelson
e la sua Family Band si unissero, durante i festeggiamenti del Mardi Grass, in
una scatenata jam ai fiati della Dirty Dozen Brass Band. Al termine di quest'ultima,
quasi in sordina, compare un'inaspettata ghost track, un piccolo reprise acustico
di A sunny place for shady people, capace di superare di gran lunga in
bellezza ed intensità quella presente nella tracklist "ufficiale" dell'album.
Un disco onesto e sincero Quirkophony, che si avvale del contributo
di un nugolo di validi strumentisti, riuniti sotto il nome di The Shinolas, sapientemente
diretti dall'esperto produttore Bill Buckingham. Un nome da appuntarsi per il
futuro, quello di Bruce Gerrish, nella speranza di non dover aspettare altri trent'anni
prima di poter ascoltare una sua nuova produzione.