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Americana, pop rock di
Fabio Cerbone (11/07/2012)
Una
"questione di famiglia" per questi cinque ragazzi di Leeds: due fratelli
a spartirsi la scena con voce e chitarre, Joe e David Dunwell, figli di un musicista
di educazione classica, quindi un paio di cugini (Rob Clayton al basso e Jonny
Lamb al basso) coinvolti nel progetto e infine un amico di lunga data (Dave Hanson
alla sei corde solista) tirato dentro a forza per completare la line up. Sulla
provenienza non ci siamo sbagliati, anche se Blind Sighted Faith,
esordio sulla distanza dopo un ep lo scorso ottobre 2011, mostra un passaporto
tutto americano nei suoni, con la produzione deluxe di John Porter (dagli
Smiths a Ryan Adams passando per il blues di BB King, un vero istrione degli studi
di registrazione). Parlare di Americana in veste brit pop per questi Dunwells
non è una forzatura bella e buona, e non solo per banali questioni geografiche:
se le origini sono inglesi, l'impasto elettro-acustico, l'uso calcato delle armonie
vocali e la struttura folk delle ballate hanno certamente una nobile ascendenza
nel rock della West Coast, fra le pieghe di una stagione lontana ritornata in
auge in questi anni.
D'altronde che finissero ad incidere il debutto negli
studi di Willie Nelson in quel di Austin era quasi un destino: la prima affermazione
la ottengono all'International Folk Alliance di Memphis, quindi monta il passaparola
fra gli addetti ai lavori, l'intuizione di avere fra le mani dei novelli Mumford
& Sons (e le analogie non finiscono qui, basta ascoltarsi l'entrata in stile di
I Could Be a King, corale e furbesca quanto
basta), prima di fare ritorno in patria, suonare nei club più esclusivi di Londra
(tra cui The Bedford, dove fu di casa anche la nuova sensazione Paolo Nutini)
e trovare appoggi persino alla BBC. Tutto in dodici mesi o poco più: proprio tipico
degli inglesi viene da pensare! Che vi sia del talento è tuttavia innegabile,
anche quando la band accentua le smancerie del suo soft rock di marca settantesca,
mettendo insieme la leggerezza di Eagles e America con l'educazione pop di casa.
Accade nella grandeur patinata della title track, fra le nuvole vaporose di Elizabeth,
nello struggimento agrodolce di I Want to Be.
Abitiamo, si sarà capito, i territori più aggraziati della tradizione
rimessa a nuovo, ma con un gusto e una naturale curiosità per sparigliare le carte
sul tavolo: Hand that Feeds ha un ritmo incalzante
e giri armonici che parlano sixties lontano un miglio; Follow
the Road si colora di folk blues e chitarre slide, sciogliendosi in
una nuvola di psichedelia; Goodnight My City
ritorna alla cristallina purezza del folk rock di famiglia; Perfect Timing
calca la mano, giocandosi l'intera posta sul solito rimpallo fra voci e chitarre.
L'idea che ci sia una studiata predisposizione in questa musica è fuori discussione,
a cominciare dalle romanticherie dei testi, a tratti un po' troppo banali. Poi
partono i sei minuti soul con l'hammond dell'ospite Jesse Hiatt in Oh
Lord e il luccichio country della bonus track Borrow Me e pensi
che non se la cavano affatto male. Avranno la malizia dei vecchi marpioni si,
ma le canzoni le sanno scrivere.