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singer-songwriter, indie rock di
Gianuario Rivelli (03/03/2012)
Più
che riluttante - come lui stesso definisce il suo stile sul più noto dei social
network - Morgan Christopher Geer, anima dei Drunken Prayer, è un musicista
decisamente ambizioso e un po’ confusionario. Il suo temerario guardare verso
modelli altissimi e la disinvoltura con cui saltabecca continuamente tra un registro
e l’altro nel corso di uno stesso disco sono la sua forza e il suo limite: le
belle canzoni non gli fanno difetto, ma manca quella coesione necessaria perché
un album, anche se vario e multiforme, possa definirsi davvero riuscito. E’ questa
la sensazione che emerge dall’ascolto di Into the Missionfield,
secondo lp (il primo, eponimo, è del 2006) di questo outsider del sottobosco indie
dal look proletario e dal talento discontinuo, impossibile da inscatolare in un
genere: infatti in questi undici brani la schizofrenia musicale è totale, ciò
frutto anche di una backing band pletorica (12 elementi, di cui ben 3 batteristi)
in cui si incontra praticamente di tutto, dal sax alla pedal steel, dal fiddle
all’armonica, dall’hammond alle tastiere.
Brazil,
esordio dal titolo esotico, è un garbato e malinconico folk che riecheggia gli
anni 70 di James Taylor, ma subito a sparigliare arriva la cover del traditional
Ain’t no grave (ripresa tra gli altri anche
da Johnny Cash) trasformata efficacemente da Geer in un pezzo garage con percussioni
battenti e un bel groove selvaggio e poi ecco un altro ripiazzamento con il pop
orecchiabile e la melodia aperta di Always sad.
Si continua così, con repentini spostamenti tra un territorio e l’altro: è la
volta del country che più classico non si può di Maryjane,
dominato da un fiddle che ne esalta le liriche sofferte, seguito da un ritorno
al pop con la giocosa Take a walk, di ispirazione
addirittura anglosassone e dai bei ganci contenuti in
I saw it with my own two eyes, un pezzo che per l’uso del violino e
non solo fa venire in mente i Moldy Peaches. Il problema è che è tutto gradevole
e ben confezionato, ma lo spessore di queste canzoni rimane relativo, come confermano
anche due innocui bozzetti come la title track e la successiva You
walk, praticamente un replay della quasi omonima Take a walk.
A far sì che la preghiera ubriaca non finisca velocemente nel dimenticatoio,
derubricata alla voce “belle occasioni perdute”, arrivano per fortuna i pezzi
finali, un bel tris di canzoni con la giusta personalità, ovviamente tutte diverse
tra loro. Si comincia con la rutilante Balloons,
un originale soul rock con un ruolo trascinante giocato dai fiati, seguita da
Beachcomber, mirabile ufo che intreccia Paul
Simon, Neil Young e i Beach Boys più contemplativi, un pezzo avulso da tutto il
resto, californiano e depresso, che riluce con il suo easy listening a bassa fedeltà,.
Il finale, da applausi, è affidato a Never tends to forget,
corposa ballata elettrica con venature psichedeliche che fa maledire Geer per
non averci pensato prima e può rappresentare la via maestra per l’omone dell’Oregon
verso un prosieguo dai contorni più delineati e dai risultati più convincenti.
Ammesso e non concesso che Morgan Geer, sedicente musicista riluttante, vi aspiri
davvero.