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folk rock, songwriting di
Fabio Cerbone (25/01/2012)
Il
nome attrae e inganna, perché sembra avere un destino scritto di successi e stardom.
In verità basta una vocale in più e sei fregato, dall'altra parte della strada,
tra gli illustri sconosciuti, fra i tanti che ci provano con l'ennesima canzone
e una chitarra acustica. James Deane però ha qualcosa da offrire oltre
alla curiosità della quasi bizzarra omonomia con un mito cinematografico dalla
eterna giovinezza: il suo futuro è la concreta possibilità di diventare un buon
songwriter, nulla di più, magari uno di quelli su cui spendere qualche parola
di speranza. Diamonds & Hearts è un esordio indipendente che meriterebbe
fin da ora i riflettori di una ribalta più ampia, non semplicemente quel sottobosco,
seppure nobilissimo, di emarginati folksinger in cerca di fortune, sempre molto
alterne quando non del tutto precarie. A metà strada fra la sua Inghilterra e
un sogno americano mai sopito, la raffinata confezione di queste ballate, con
tutti i loro limiti di produzione, ricorda da vicino le qualità cristalline di
Jeff Black e un poco gli umori folkie di Kreg Viesselman, altri inguaribili outsider
fuori dai giochi che contano.
Con accenti pop a tratti più marcati, Deane
costruisce un disco accogliente e classico, dove l'eco della grande scuola folk
rock dei seventies si unisce allo spirito british dell'autore e ai richiami tradizionalisti
di questi giorni, lì dove Cat Stevens, Jackson Browne e Tom Petty (l'apertura
della title track riassume in un bigino la formula del ragazzo) trovano un riparo
ospitale fra chitarre acustiche, armoniche, docili ricami di pianoforte (Jack
Duxbury) e persino uno svolazzo di fiati di tanto in tanto (Joe Walters). Le ingenuità
non mancano e il budget sarà pure ridotto, ma quando le luci si abbassano la voce
calda di Deane compie un balzo al centro della scena e nella sua disarmante sincerità
centra il bersaglio con poche azzeccate rifiniture. Romaticismo e struggenti quadretti
di poesia folk attraversano Seventeen e Whole
Heart Blue, scavate pazientemente fra radici che vorrebbero viaggiare
su una highway americana e un piacere tutto inglese nello scovare graffi melodici.
Su quest'ultimo versante l'incedere raggiante di The
Passing of Time ha tutte le carte in regola per offrire a James Deane
qualcosa in più del solito, comodo giaciglio da folksinger di periferia. Ci sono
troppe, semplici, immediate evocazioni fra le pieghe di queste ballate per liquidarlo
in tal modo: Dreamed You Were Home ad esempio,
così elegante e accorata, anche nel sostegno delle backing vocals, oppure l'intonazione
soul che sottende I Surrender e ancora un
finale che si chiude a riccio nella crescente bellezza di Reasons,
Someone Somewhere Someday e Midnight
Train, piccoli brani da dieci e lode per la purezza del loro approccio,
esempi di un songwriting modellato con pazienza, fino all'arpeggio per chitarra
e piano di Strange Emotion, con cui tutto
arriva naturalmente a destinazione.
Debutto a dir poco incoraggiante,
tra i miglliori di inizio 2012, che porta unicamente il grande peso di non restare
- come spesso è accaduto - un fuoco di paglia, una luce intermittente.