File Under:country-folk,
storyteller di
Marco Poggio (24/11/2012)
Nativo
di Edmonton, nello stato dell'Alberta, Scott Cook ha tuttavia trascorso
la sua recente esistenza, artistica e non, a bordo del proprio furgone, prima
lungo gli sperduti sentieri del verde Canada, valicandone poi i confini per affrontare
la vastità dei territori statunitensi. D'altra parte si sa, i viaggi sono da sempre
una tappa fondamentale, oltre che un'inesauribile fonte ispiratrice alla quale
abbeverarsi, per ogni songwriter che si voglia definire tale. Fin dall'emblematico
titolo di questa sua terza fatica discografica, si intuisce infatti come ad essere
al centro dell'impianto musico-narrativo sia appunto il viaggiare, e conseguentemente
le storie, i luoghi e le persone ad esso legati indissolubilmente. Se le architetture
sonore di chiara derivazione folk, attraverso le quali si dipana la proposta musicale
cookiana, hanno la loro peculiarità in una tanto disarmante quando suggestiva
semplicità melodica, a risaltare sono senza dubbio le liriche, le quali danno
vita a piccole istantanee dalle tinte seppiate.
Basti prendere l'opener
Song for the Slow Dancers,
una neanche tanto velata dissertazione sull'autenticità della musica odierna,
traente ispirazione dalle parole di colui con il quale prima o poi ogni songwriter
"vagabondo" deve confrontarsi, Woody Guthrie. Senza parlare di una Going
Up to the Country, che miscela in egual misura country e folk, e dove
cominciano a mettersi in luce gli apporti strumentali dei Long Weekends,
ormai consolidata backing band del nostro. Let Your Horses
Run è una ballata dai toni sommessi, che si regge su di un bel lavoro
di fingerpicking, ulteriormente abbellito dall'armonizzazioni vocali di Shawna
Donovan e da un banjo suonato in punta di dita. The Lord
Given (and the Landlord Taketh Away) sconfina in territori bluegrass
e, facendo sua l'affermazione di William K. Black secondo la quale "Il miglior
modo di rapinare una banca è fondarne una", può essere ascritta di diritto nel
novero delle moderne protest song.
Il songwriting cookiano raggiunge poi
il proprio apice nel malinconico incedere di High and
Lonesome Again, i cui afflati country vengono ulteriormente dilatati
dai languidi intarsi melodici della pedal steel. Sembra preferire i tempi rallentati
Cook, sia che si tratti dell'introspezione in chiave folk di All
My Moonlit Rambles, dell'acquerello acustico per sola voce e chitarra
di Time with you o della toccante dedica al nonno di Go
on, Ray, nelle quali a risaltare è la sua voce tanto flebile quanto
a tratti avvolgente. Una voglia di viaggiare quella insita nel canadese, che pare
non essersi sopita, come si intuisce nella conclusiva Song
for a Pilgrim,ennesimo esempio di una proposta sonora che trova la
propria forza nel sottrarre invece che nell'aggiungere. E se i risultati dei futuri
pellegrinaggi sonori si assesteranno sul medesimo livello di queste "passeggiate
al chiaro di luna", non possiamo che augurare a Scott Cook un buon viaggio.