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for Texas, T for Tennessee di
Yuri Susanna (07/01/2013)
La
storia la conoscete già, anche se di Andrew Combs non avete mai sentito
parlare. Un ragazzo lascia il Texas con una chitarra, una melodia di Townes Van
Zandt a fior di labbra, i testi e gli accordi di qualche canzone scritta nei pomeriggi
noiosi e interminabili della propria adolescenza ficcati nella tasca posteriore
dei jeans (sdruciti, ovvio). Destinazione: Nashville. Che non è più quella delle
produzioni milionarie di Chet Atkins e Owen Bradley, né quella scelta da Altman
per smascherare la grande messinscena americana, e neppure quella dei nuovi tradizionalisti
di metà anni '80, ma evidentemente rimane ancora un polo musicale capace di attrarre
un ventenne con in testa il sogno di una "million dollar song" (o, più realisticamente,
una canzone da un milione di download). L'accoglienza non è quella sperata, e
comincia l'iter di sbronze nei bar, cuori spezzati e notti trascorse sui divani
degli amici. Ma whisky e pene d'amore sono carburanti nobili per chi pratica l'arte
del songwriter, e Andrew Combs, fatto il pieno di esperienze, può presentarsi
al mondo con il suo disco d'esordio (prima c'erano già stati un paio di ep, a
dire il vero).
Non sappiamo se sia andata proprio così, le informazioni
che si raccattano in giro su questo giovane cantante/autore dal viso imberbe (ma
con la voce ruvida come una barba di tre giorni) potrebbero autorizzare la nostra
ricostruzione, ma potrebbe anche essere andata in un altro modo. Non è importante:
tra la realtà e il mito, vincerà sempre il mito. E qua il mito è quello dell'"altra"
Nashville, quella dei talenti che vivono al margine, fuori del cono di luce dei
riflettori del grande circo, in attesa del loro momento, mentre imparano a massaggiarsi
le cicatrici in la minore. Devil Got My Woman,
canta Combs - un'immagine rubata a Skip James - nella canzone con cui si presenta:
è un uptempo che puzza di honky tonk, per metà autocommiserazione e per metà autoironia.
Un inizio che pone la barra delle aspettative molto alta. Ciò che segue è meno
immediato (l'uno/due di Please Please Please
e Heavy, due ballate trascinate e sofferenti
che portano l'impronta di Ryan Adams), ma si viaggia sempre sopra la media: sia
quando si alza il volume con il boogie-rock di Big Bad
Love o con una specie di omaggio nascosto alla Band intitolato Take
It from Me, sia quando si spengono le luci e ci si lascia andare alle
confessioni di Come Tomorrow e Too Stoned to Cry
(con le armonie di Caitlin Rose).
Running You
Out of My Mind indovina una melodia che gli Eagles dei tempi d'oro
avrebbero trasformato in una hit facile facile, mentre l'onnipresente pedal steel
di Spencer Cullum Jr. si ingegna a rammentarci da quale radici sboccino queste
composizioni, e ogni tanto un piano ci trasporta tra i tavoli di un bar (Why
Why Why), o le chitarre prendono inattesi accenti blues (succede nella
title track, ad esempio). Peccato che il disco sia disponibile al momento solo
in download (per procurarsi il cd conviene contattare direttamente l'autore dal
suo sito web), perché questo ha tutta l'aria di essere un esordio, nel suo ambito,
importante. Andrew Combs ci ricorda (per attitudine e stile, e in parte
anche per il timbro della voce, non certo per la faccia da bravo ragazzo) un altro
texano che quasi quarant'anni fa partì alla conquista della città delle chitarre.
Si chiamava Steve Earle, e forse di lui avete sentito parlare.