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desert folk, alt-country di
Fabio Cerbone (16/01/2012)
Non
fa sconti la musica di Stiv Cantarelli, autore fiorentino che ha sempre
navigato oltre l'orizzonte strettamente italiano, per approdare lì dove i suoi
desideri e le sue passioni hanno preso forma, l'America più desolata e provinciale.
Odora infatti di polvere e nubi minacciose all'orizzonte questo esordio solista,
Innerstate, che possiede tutti i crismi di un lavoro dal peso internazionale,
primo disco di un artista europeo pubblicato infatti dall'etichetta dei Richmond
Fontaine, El Cortez. L'amicizia artistica fra Cantarelli e l'apprezzate band di
Portland, concretizzatasi durante un recente tour, ha condotto naturalmente le
loro strade ad incrociarsi, tanto sono intrise di un destino comune nei suoni
e nell'immaginario. Dunque ben venga la presenza di Innerstate in un contesto
ampio, che solitamente riserviamo a band e solisti americani, poiché il sentierio
di Cantarelli è da sempre collocato sui toni scuri e malinconici di una ballata
che rappresenta la quintessenza dell'alternative country, così come è stato concepito
e cresciuto al suo apice di ispirazione (Uncle Tupelo e dintorni, metà anni novanta,
per intenderci).
D'altronde le esperienze con i Satellite Inn (prima e
forse unica band italiana ad incidere nell'alveo del genere, per la defunta Mood
Food che fu anche dei primi Whiskeytown) e i più virulenti e garagisti Gold Rust
(altro ottimo progetto passato purtroppo inosservato) non mentono sul personaggio.
Non si creda tuttavia ad una semplice dipendenza dai modelli stilistici di riferimento,
quanto ad una elaborazione di carattere: se Innerstate è letteralmente immerso
nella poetica desertica degli ultimi Richmond Fontaine (che peraltro suonano al
completo o quasi nell'album stesso, con la sezione ritmica formata da Dave Harding
e Sean Oldham), è altrettanto vero che al taglio cinematografico, narrativo di
questi ultimi, Cantarelli sostituisce uno spleen, un'introspezione degne semmai
di Neil Young e di tutta una vecchia scuola di folksinger usciti dagli anni Settanta.
Passi dunque per la dolcissima A Farewell letter,
dove il duetto con lo stesso Willy Vlautin (voce e anima dei RF) porta
in paradiso la lezione dell'alternative country, ma già con l'agrodolce arpeggio
di 19 and Jaded e ancora di più fra l'oscurità
di June e The Rookie
si sviluppa la visione tutta personale di Stiv Cantarelli.
Affiancato
dal solo Dario Neri nella produzione e nell'abbellimento d'ambiente del
disco, l'essersi rimesso nelle mani dei Richmond Fontaine gli ha fornito una chiave
per sorreggere l'opera nel suo complesso: si mostrerà uniforme fino alla testardaggine,
quasi monocorde in apparenza, eppure svelerà la sua forza proprio in ragione di
questo mood sonoro, lo stesso che sembra fondere in un unico grande capitolo l'intero
Innerstate. Dagli strumentali di entrata e di uscita (Innerstate e Barcelona
Girl), a quelle fratture nella voce - fragile, imperfetta e quindi adattissima
allo stile - che accompagnano pigre The Spinning Wheel,
Countryside e Under
Colored Lights, a modo loro folk song tradizionalissime, spezzate da
un'intensità crepuscolare che è come una fotografia sbiadita, in rigoroso
bianco e nero.