File Under:teenagers'
folk rock di
Fabio Cerbone (25/10/2012)
Per
una una buona volta lasciamo stare Bob Dylan, a maggior ragione adesso che il
chiacchiericcio attorno a Tempest non accenna a calare, rastrellando consensi
inaspettati forse per lo stesso autore. Il fatto è che Jake Bugg, classe
1994 (si, avete letto benissimo), viso imbronciato e sfrontatezza da beata adolescenza
appena abbandonata alle spalle, ha già dovuto sobbarcarsi qualche temerario paragone,
lo stesso che avvicina quasi irresponsabilmente il suo folk rock dai sapori vintage
a vecchie fotografie in bianco e nero del festival di Newport, quando Bob attaccò
la spina. No, questo non è il nuovo Re Mida di un mitizzato eldorado della musica
folk e questo non è il 1965: siamo piuttosto a Nottingham, periferia inglese,
dentro un "piccolo mondo" di ragazzini cresciuti fra la strada e i filmati di
youtube.
Jake Bugg li ha rimescolati con l'incoscienza di un diciotenne,
scegliendo una chitarra acustica (o una vibrante Telecaster, come nel quarto singolo
estratto, Taste It) in luogo di un campionamento
o un tocco di synth: lo dice anche lui, con tutta l'ingenuità del caso, parlando
della voglia che ha letto negli occhi della gente di tornare a suonare e sentire
"guitar music". La percezione gli è arrivata dai palchi di mezza Europa, partendo
da Londra ovviamente. Gli appoggi non gli sono mancati fin dagli inizi: l'entusiasmo
innato della stampa britannica (un film già visto) ma soprattutto il sostegno
artistico di Noel Gallagher, Michael Kiwanuka (entrambi se lo sono portati in
tour, passando anche in Italia di recente), Elton John, Chris Martin e Damon Albarn,
parterre di star che hanno finito per far circolare Trouble
Town, la dolce Country Song, Lightning
Bolt o la citata Taste It nelle radio, una sequenza di singoli
da fare invidia a chiunque. Canzoni semplici, riff elettro-acustici immediati
che fanno la spola fra l'accento brit pop, i sixties rivisitati dagli Oasis (passando
per i Beatles, che sia chiaro) e un folk che guarda ai grandi spazi americani
(Someone Told Me, Broken, Trouble
Town).
L'operazione ricorda vagamente un altro giovane, elegante
esteta del passato, il conterraneo Pete Molinari: ma mentre quest'ultimo sembra
essersi fermato agli anni cinquanta di Hank Williams, tra country di origine controllata,
primo rock'n'roll, gospel e epopea d'autore alla Brill Building, Jake Bugg
pare avere già la malizia di un veterano, sintetizzando passato e presente con
una sensibilità pop più spiccata e liriche che, pur nella loro inevitabile inesperienza
del mondo, hanno un piglio naif e una qualche onestà di fondo nel tratteggiare
la vita e le amicizie di un ragazzo inglese del 2012. Non sbucherebbero altrimenti
dal suo carnet episodi quali Two Fingers o
l'irresistibile Someplace (una delle prime
canzoni scritte, pare intorno ai 14 anni), alternati a malinconiche nenie acustiche
(Slide, Note to Self) con toni psichedelici
(Ballad Of Mr Jones) degni di un novello Donovan.
Ci sarà anche una pianificata macchina promozionale dietro Jake Bugg, come se
tutto ciò fosse una novità spiazzante, ma questo omonimo esordio non è affatto
un fuoco di paglia, semmai un dejà vù di suoni e ballate che fa della spontaneità
e della naturale innocenza il suo indiscutibile punto di forza.