[Home]
 
 
Acquista (#pubblicità)
Condividi
     
 

Kasey Anderson
To the Places We Lived
[Nervous Kid / In Music We Trust 2024]

Sulla rete: kaseyanderson.bandcamp.com

File Under: Songs from a Portland room


di Gianfranco Callieri (25/11/2024)

Qui in Italia, con la lodevole eccezione del sito che state leggendo, non lo conosce nessuno. Non molti di più lo conoscono all’estero, soprattutto per la terra bruciata radunatasi intorno a lui dopo una truffa perpetrata ai danni di amici e conoscenti, all’inizio dello scorso decennio, per la quale si era beccato quattro anni di carcere. Ne scontò due, ma erano gli anni di una riabilitazione intensiva (conseguenza di una diagnosi di disturbo bipolare severo), di un matrimonio difficile e sofferto (nondimeno ancora in piedi), di una paternità tormentata (ma accolta come una resurrezione personale) e soprattutto della progressiva, inesorabile demenza in cui andava inabissandosi il padre, alla fine passato a miglior vita nel 2020, proprio quando queste canzoni iniziavano a prendere forma.

Eppure, Kasey Anderson ha continuato a suscitare il plauso incondizionato di molti colleghi, da Jason Isbell a Steve Earle, fino ai Counting Crows, a tal punto entusiasti delle sue composizioni da inserirne la Like Teenage Gravity del 2010 nella (strepitosa) cornucopia di omaggi alla scrittura altrui di Underwater Sunshine. Quella canzone proveniva da Nowhere Nights, e secondo Anderson il nuovo To The Places We Lived ne costituirebbe il sequel, sia in termini di confezione sonora (all’insegna di un cantautorato elettrico minimalista e bruciante) sia dal punto di vista dell’ispirazione (innescata dalla voglia di ritrovare l’immediatezza delle audiocassette di Tom Petty e Bruce Springsteen ascoltate, una vita fa, nei viaggi in macchina col papà).

Stando alle dichiarazioni dell’autore, si tratterebbe anche del suo ultimo album, ma qui non sappiamo se a parlare sia la coscienza dell’artista, magari consapevole di aver dato il possibile, o la ciclotimia del neurodivergente. Sarebbe comunque un peccato se To The Places We Lived concludesse la carriera del suo artefice, perché sebbene ci siano voluti vent’anni di alti e bassi per sopraggiungere a un risultato così efficiente, omogeneo e incisivo, dischi di questa levatura - tardi e imprevedibili frammenti di un ventesimo secolo che continua ad appassire in un oceano di malinconia - già ci mancano oggi, mentre di qui a qualche stagione finiremo per ricordarli con nostalgia inguaribile e pungente. Con questo, non sto attribuendo all’opera numero otto di Anderson (nel conto sono inclusi i progetti collaterali di Honkies e Hawks & Doves) la patente di "capolavoro". Non lo è; non possiede, dei capolavori, le varie, particolari e irripetibili caratteristiche. Ma è, appunto, un ottimo disco "medio", come si usava un tempo, quando l’urgenza di essere definitivi non era all’ordine del giorno e attraverso una serie di canzoni rock perfettamente congegnate si poteva raccontare, se non la Vita stessa, qualche vita ai margini, qualche storia minore, qualche punto di vista personale.

Dal magistrale, solenne passo folkie dell’iniziale Beginners alle unghiate blues della strepitosa Back To Nashville, dal folk-rock in purezza di una Ellensburg della quale sarebbe andato orgoglioso il compianto Greg Trooper al tenore rockista della luminosa Readynow, dall’autunno del cantautore illustrato nell’incantevole The Lost Parade al feroce rock & roll della sferzante Paint It Gold, fino ai rintocchi di pianoforte dell’austera Start Again e allo splendido duetto con Matthew Ryan della sofferta Leave An Echo, non c’è, nella scaletta di To The Places We Lived, una sola nota fuori posto, o un colpo a vuoto che possa metterne in discussione l’intreccio di sottrazioni esecutive nel quale scorrono tracce di Bruce Springsteen, Lou Reed, Gary Louris e altri decani dell’arte difficile di scrivere brani, apparentemente immobili, dove accade però di tutto.

Una volta arrivati ai quasi dieci minuti dell’ultima, bellissima title-track, ecco Anderson aprirsi al tumulto sconvolgente e inebriante di un freewheelin’ dylaniano articolato come momento del distacco, dell’addio alla gioventù e dell’ingresso in una maturità tanto complicata e irregolare quanto, in fondo desiderata. È in questo brano indimenticabile che To The Places We Lived trova il suo tema poetico più vero e generoso: l’indulgenza verso gli errori del passato e l’affetto verso i luoghi in cui gli errori di una vita intera hanno finito per compiersi, il corso veloce di un’esistenza senza risarcimenti e senza retromarce. E infine, il doloroso ma inevitabile congedo dagli inganni e dalle illusioni degli anni più sciocchi, più veri e più belli. Non saprei cos’altro chiedere, in tutta sincerità, a un disco "rock" uscito nel 2024, e non sapendo cosa chiedere, dico a me e suggerisco a voi di limitarsi, semplicemente, ad ascoltare.



<Credits>