Venticinque anni e un’idea già abbastanza chiara
su quale direzione imprimere alle sue canzoni, Jake Ybarra è una
delle tante giovani voci dell’Americana che stanno traghettando la canzone
roots d’autore nel nuovo decennio. Non risultassero abbastanza evidenti
influenze e sonorità da questo suo debutto sulla distanza (Basement
Songs il primo ep, nato in tempo di pandemia), ci viene in soccorso
lo stesso Jake, che non manca di citare i suoi songwriter del cuore (i
soliti noti, da Townes Van Zandt a John Prine e Guy Clark, per arrivare
al più contemporaneo Jason Isbell) e aggiunge al piatto anche una passione
per certa letteratura (il più classico Hemingway, fino all’attuale George
Sanders), come a ribadire l’educazione universitaria del ragazzo (ha persino
un tirocinio al parlamento europeo nel suo curriculum post laurea) ma
soprattutto l’attenzione non banale per parole e storie che possano colpire
in profondità.
Non fanno difetto neppure una bella voce e una qualità melodica al nostro
Jake Ybarra, origini ispaniche, cresciuto fra il nativo Texas e Greenville,
nella North Carolina, dove la famiglia lo ha allevato con dosi massicce
di musica, anche religiosa, vista l’appartenenza alla Chiesa Battista.
Dai classici quartetti gospel al rock’n’roll suonato al college, Ybarra
si è costruito un percorso al quale non è stato indifferente anche il
background degli stessi genitori, una madre pianista classica e un padre
musicista semi-professionista, con l’aggiunta di due fratelli chitarristi
che hanno impresso una svolta in fatto di ascolti casalinghi. La traiettoria
giunge a Something in the Water, album con una personalità
ben visibile, soprattutto nella forma delle ballate e nell’intreccio elettro-acustico,
che esalta il lavorio di David Flint alle chitarre e dell’ottimo Dane
Bryant al piano e organo, un lirismo che attraversa l’intera scrittura
del giovane Jake, già dall’introduzione con Late
November.
Al netto di qualche bizza country rock in Late Bloomer, dall’epica
outlaw texana, e di certa frenesia honky tonk in A Whole Lot to Remember,
un po’ scolastiche a dire il vero, la dimensione naturale di Ybarra sembra
essere piuttosto quella della ballata agrodolce e descrittiva, territorio
nel quale la chiarezza della sua voce può fare emergere personaggi e storie:
per esempio il dialogo fra acustica e piano in Savannah’s
Song, il mite sobbalzare rootsy di Long Winter e della
stessa title track, più in generale la leggera patina di malinconia che
pare trafiggere spesso l’intepretazione del nostro, tutte caratteristiche
di un album che fa della nitida esposizione dei sentimenti la sua migliore
qualità, accompagnandoci per mano nelle narrazioni di Disappear
e No Reason or Right (una discesa armonica che richiama la Friend
of the Devil dei Grateful Dead) fino alla conclusione di Silly
Little Things, altro bel numero di Americana d’autore che ribadisce
il tracciato sul quale Jake Ybarra vuole collocarsi, ultimo allievo di
una generazione che mantiene ancora racconto e musica sullo stesso piano.