Condividi
     
 

Jake Ybarra
Something in the Water
[Jake Ybarra 2023]

Sulla rete: jakeybarra.com

File Under: young americana voices


di Fabio Cerbone (20/04/2023)

Venticinque anni e un’idea già abbastanza chiara su quale direzione imprimere alle sue canzoni, Jake Ybarra è una delle tante giovani voci dell’Americana che stanno traghettando la canzone roots d’autore nel nuovo decennio. Non risultassero abbastanza evidenti influenze e sonorità da questo suo debutto sulla distanza (Basement Songs il primo ep, nato in tempo di pandemia), ci viene in soccorso lo stesso Jake, che non manca di citare i suoi songwriter del cuore (i soliti noti, da Townes Van Zandt a John Prine e Guy Clark, per arrivare al più contemporaneo Jason Isbell) e aggiunge al piatto anche una passione per certa letteratura (il più classico Hemingway, fino all’attuale George Sanders), come a ribadire l’educazione universitaria del ragazzo (ha persino un tirocinio al parlamento europeo nel suo curriculum post laurea) ma soprattutto l’attenzione non banale per parole e storie che possano colpire in profondità.

Non fanno difetto neppure una bella voce e una qualità melodica al nostro Jake Ybarra, origini ispaniche, cresciuto fra il nativo Texas e Greenville, nella North Carolina, dove la famiglia lo ha allevato con dosi massicce di musica, anche religiosa, vista l’appartenenza alla Chiesa Battista. Dai classici quartetti gospel al rock’n’roll suonato al college, Ybarra si è costruito un percorso al quale non è stato indifferente anche il background degli stessi genitori, una madre pianista classica e un padre musicista semi-professionista, con l’aggiunta di due fratelli chitarristi che hanno impresso una svolta in fatto di ascolti casalinghi. La traiettoria giunge a Something in the Water, album con una personalità ben visibile, soprattutto nella forma delle ballate e nell’intreccio elettro-acustico, che esalta il lavorio di David Flint alle chitarre e dell’ottimo Dane Bryant al piano e organo, un lirismo che attraversa l’intera scrittura del giovane Jake, già dall’introduzione con Late November.

Al netto di qualche bizza country rock in Late Bloomer, dall’epica outlaw texana, e di certa frenesia honky tonk in A Whole Lot to Remember, un po’ scolastiche a dire il vero, la dimensione naturale di Ybarra sembra essere piuttosto quella della ballata agrodolce e descrittiva, territorio nel quale la chiarezza della sua voce può fare emergere personaggi e storie: per esempio il dialogo fra acustica e piano in Savannah’s Song, il mite sobbalzare rootsy di Long Winter e della stessa title track, più in generale la leggera patina di malinconia che pare trafiggere spesso l’intepretazione del nostro, tutte caratteristiche di un album che fa della nitida esposizione dei sentimenti la sua migliore qualità, accompagnandoci per mano nelle narrazioni di Disappear e No Reason or Right (una discesa armonica che richiama la Friend of the Devil dei Grateful Dead) fino alla conclusione di Silly Little Things, altro bel numero di Americana d’autore che ribadisce il tracciato sul quale Jake Ybarra vuole collocarsi, ultimo allievo di una generazione che mantiene ancora racconto e musica sullo stesso piano.


    


<Credits>