Attraversato da una cruda tenerezza nell’esposizione
dei sentimenti e da una dolce malinconia pastorale in cui lasciarsi cullare
all’ascolto, il secondo album della californiana Angelica Rockne sembra
raccogliere il testimone di una lunga tradizione, quella che dalle albe
luminose nel Laurel Canyon approda alle fragilità delle nuove muse del
folk americano contemporaneo. Nel mezzo un mondo di suoni e parole che
collocano questa autrice su uno sfondo del quale conosciamo ogni colore
e tonalità, e basterebbe d’altronde riconoscerli nell’evocativa copertina.
C’è il deserto, il suo riflesso sull’anima, e laggiù il grande abbaglio
della città, Los Angeles, luogo di tentazioni e piaceri nel quale Angelica
afferma di essersi persa e ritrovata negli ultimi anni, ben cinque dal
suo esordio Queen Of San Antonio, album che le valse le attenzioni
della stampa internazionale (Uncut lo elesse disco Americana del mese)
e le aprì le porte dei club musicali. Combattuta dal contrasto fra il
disincanto di ciò che ha lasciato e la pienezza di ciò che ha guadagnato
in questo tempo di attesa (anche un figlio e il nuovo ruolo di madre),
la Rockne si accoda con personalità a una serie di voci femminili che
hanno tratto simili lezioni dal passato: nelle confessioni al traino di
una languida melodia in The Age of Voyeur o tra i riflessi elettro-acustici
della stessa The Rose Society e The
Distance is High vengono in mente le colleghe di etichetta Devin Tuel
(del duo Native Harrow) e Courtney Marie Andrews, o meglio ancora la più
eterea Alela Diane (Crystalline e
Path of the Rose ne possiedono una analoga gracile bellezza).
Musiciste che intrecciano come Angelica il linguaggio di base del folk,
certa Americana dai tratti psichedelici (qui lasciato emergere soprattutto
nelle volute di Protection, Prayers and Vigilance)
e parecchi languori pop d’autore. Nel caso di Angelica Rockne c’è un’educazione
sentimentale trascorsa probabilmente sui dischi di Joni Mitchell, Byrds
e Gram Parsons (girano anche alcuni video in rete che bene ne esplicitano
l’influenza), anche se il nuovo corso inaugurato da The Rose Society,
partito da uno studio di Nevada City nell’estate del 2021, mostra subito
le maggiori ambizioni in fase di arrangiamento e produzione, affiancando
ai collaboratori Jason Cirimele (chitarre e basso) e Cody Rhodes (batteria)
le delicate coloriture di piano e organo di Patrick McGee, ma soprattutto
il drappo di orchestrazioni e partiture per archi che spesso avvolgono
le ballate di Angelica in un manto raffinato, lo stesso che in The
Undoing e nella pianistica Ripe to Ruin, per arrivare alla
chiusura con The Night Dreams You, inseguono melodie sottilmente
retro ed avvolte da echi sixties.
Qualche volta l’impressione è che ci sia fin troppo compiacimento da parte
dell’interprete e della musica stessa, un grado di sofisticazione che
toglie un po’ della bellezza espressa nella prima parte del disco, ma
nel paesaggio sonoro che esprime The Rose Society è racchiusa
anche la ragione del suo fascino.