C’è la fotografia in bianco e nero di un bambino
sulla copertina dell’album: uno sguardo serio, fisso in camera; una giacca
a vento leggermente più grande di lui a coprirlo; è in mezzo a spighe
piegate dal vento, ma, ciò nonostante, lo stesso più alte di lui. È l’unica
copertina, tra i tanti dischi pubblicati (soprattutto Ep, l’ultimo nonché
unico Lp, The Boy I Used to Be, risale al 2017), che non ritrae
il Samuel James Taylor dell’oggi, ma il suo passato (se è lui il
bambino, ammetto che è una supposizione) – breve inciso: anche sulla copertina
della raccolta di Ep Tales From A Troubadour, se si vuole, c’è
la sua figura disegnata e stilizzata, anche se si esce un poco dal canone
(poi, a dire il vero, tutti, o quasi tutti, i solisti mettono sui propri
lavori la propria faccia).
Infatti, il menestrello, o cantastorie, come lui stesso si definisce (troubadour,
per l’appunto), sempre disposto a vagare e suonare, seguendo la sua antica
natura, per quanto possibile nell’attuale modernità globalizzata, decise
di interrompere le proprie peregrinazioni e vagabondaggi, prediligendo
la clausura della campagna inglese, la sua terra natale; un ritorno al
passato per recuperare sé stessi, o per unirlo con le nuove esperienze
apprese in giro per il mondo, per completarsi, prima di riprendere il
proprio viaggio. Il genere a cui si può inscrivere Wild Tales and
Broken Hearts è l’Americana, malgrado le origini del nostro, tanto
che, una volta finite di scrivere le canzoni, Samuel James Taylor ha registrato
il disco a Nashville, ai Skinny Elephant Studios, con la produzione di
Neilson Hubbard.
“Dreams can last forever, just don’t tear them apart, keep singing”: queste
sono alcune delle parole di Wild Tales and Broken Hearts, la prima
canzone della scaletta dell’album; è una sorta di professione di fede,
che il cantautore ha coerentemente seguito nel corso della sua lunga carriera
non solo solistica, visto che in passato fu anche voce del gruppo Dead
Like Harry, dei quali il primo lavoro lungo, Red Dress, risale
al 2006: un sogno inseguito, e realizzato, per più di quindici anni, senza
mai smettere di cantare. E il risultato, Wild Tales and Broken Hearts,
del prolungamento di questo sogno è ambiguo: alcuni brani, Exquisite
Pain e Virginia Girl, per
esempio, sono molto buoni grazie all’ottima armonia trovata tra i singoli
strumenti; ma, dall’altra parte, si trovano canzoni troppo dolci, nelle
parole e nei suoni, che sanno di appiccicaticcio e banalità, come Rage
and Fight, Map of Love – il problema non è il contenuto in
sé, l’amore, ma il come si tratta un determinato contenuto. Il
mio giudizio è una sufficienza: è un album che vive e vivrà nel vasto
purgatorio dei dischi Americana né cattivi, né buoni, né memorabili, né
dimenticabili.