Sono ancora le acque del Kentucky a trascinare a
valle l’ennesimo talento della giovane canzone roots d’autore di questi
anni. Miniera inesauribile di sorprese, quella terra martoriata, povera
e inquinata deve produrre per reazione qualcosa di speciale, altrimenti
non si spiegherebbe questa generosità, le cui fila si ingrossano con l’arrivo
di Aaron Raitiere, anima randagia che dopo qualche anno di tentativi
e lavoro duro nell’ombra, trova la sua occasione con Single Wide
Dreamer. È il disco che nelle intenzioni degli stessi Miranda
Lambert e Anderson East, produttori a Nashville del disco in questione,
amici fidati e collaboratori di lungo corso di Raitiere, dovrebbe portare
la musica di Aaron alle attenzioni di un pubblico più vasto.
Classico caso di songwriter dietro le quinte, il nostro personaggio ha
firmato canzoni per una valanga di piccole e grandi stelle del country
rock e dell’Americana dei giorni nostri, elenco che ai citati Lambert
e East aggiunge, tra gli altri, Ashley McBryde, Oak Ridge Boys, Lone Bellow,
Brent Cobb, Shooter Jennings, annunciando le qualità apprezzate dai colleghi
(e dal produttore Dave Cobb, che lo ha messo sotto contratto). Era tempo
insomma che Aaron Raitiere acciuffasse la sua possibilità: Single Wide
Dreamer se la gioca tutta con dodici canzoni rimaste nei cassetti,
che adottano una forma sbarazzina ed eclettica, dove country, folk rock,
venature soul e sensibilità pop si inseguono anche nello stesso brano,
con una sottile vena ironica e disincantata nel raccontare la propria
vita, le miglia percorse e gli amori disordinati (nel tragitto fino a
qui Raitiere non si è fatto mancare nulla, anche una casa completamente
bruciata). L’effetto è dannatamente piacevole, senza stravolgere le buone
regole della canzone d’autore americana che da John Prine e Kris Kristofferson
(sentite il talkin’ che dà l’attacco alla stessa Single Wide Dreamer)
arriva ai giorni nostri.
L’album, dalle bizze elettriche e sudiste di Everybody
Else ai soprassalti roots’n’roll del singolo For
The Birds, dalle tessiture più spigliate di At Least We
Don’t Have Any Kids fino ai ricordi intimi di Coul Soup, Dear
Darlin’ e Worst I Ever Had, è quello che da troppi anni non
riesce più a incidere Todd Snider e allo stesso tempo quello che potrebbe
saltar fuori se uno come Hayes Carll aggiungesse una nota più pop alla
sua scrittura (l’ironia di You’re Crazy gira da quelle parti, per
intenderci). Con uno stuolo di ottimi musicisti messi a disposizione nel
leggendario RCA Studio A di Nashville e qualche opportuna partecipazione
straordinaria (dal citato Dave Cobb ad Ashley Monroe, Waylon Payne, Robert
Randolph, fino alla chitarra di Bob Weir), Aaron Raitiere offre
la sua visione semplice e smaliziata dell’esistenza e della musica (Can’t
Rain all The Time, la massima conclusiva di
Time Will Fly) accomodandosi al ricco banchetto dei nuovi tradizionalisti
che in queste stagioni stanno animando l’altra Nashville.