Velleità da poeta e repertorio da folksinger, innamorato
tanto di Walt Whitman quanto di Utah Phillips, insegnante di letteratura
e giovane capitano della squadra di football del liceo, abiti da cowboy
vagabondo e identità queer: ce n’è abbastanza per attirare la curiosità
di chi è alla ricerca di quelle voci “stonate” e marginali rispetto all’american
dream, outsiders per destino prima ancora che musicisti, pronti a
raccontare l’esclusione, la libertà, il viaggio e le esperienze da un
punto di vista sempre alternativo alla narrazione principale.
Willi Carlisle è figlio del suo tempo e del Midwest, cresciuto fra
Illinois e Kansas, ma le ragioni del suo stare al mondo e della scelta
di essere un songwriter le ha scovate nel passato, tra un manciata di
ballate e hillbilly song che arrivano da lontano, un po’ anima dissidente
alla Woody Guthrie, un po’ cantastorie alla Rablin’ Jack Elliott, nel
mezzo tutto un filo rosso che lega l’altra America, di cui Carlisle indaga
la contemporaneità mettendosi nei panni di chi cerca la sua strada controcorrente
e il suo pezzo di amore. Interessante biografia, non c’è che dire, con
un primo disco nel 2018 che prende le misure e allontana definitivamente
Willi dall’idea di diventare un letterato, scegliendo invece la via della
canzone e di un occhio gettato sulle iniquità. Una presa di coscienza,
anche personale, vista la sua identità bisessuale rivendicata, che adesso
si trasforma in Peculiar, Missouri, raccolta di filastrocche
folk tradizionali, polke country, stralci di hillbilly music e persino
sventagliate tex mex che nasce dall’innamoramento di Carlisle per il paesaggio,
umano e naturale, delle Ozarks Mountain, regione che offre spunti musicali
all’intero album.
Un disco quest’ultimo asciutto e iper-tradizionalista, dove l’elemento
di rottura è da ricercare nelle parole sincere e nella figura stessa di
Willi Carlisle, capace di dare fondo alla potenza evocativa e genuina
delle descrizioni in Life on the Fence,
dolce walzer country, e Tulsa's Last Magician,
fingerpicking acustico, tra gli episodi migliori del disco. Oltre al basso
e al mandolino di Grant D’Aubin, gli strumenti che accompagnano il canto,
“sgraziato” e immediato come ci si aspetterebbe dal ruolo di Carlisle,
sono principalmente nelle mani del produttore Joel Savoy e qualche volta
del chitarrista (anche pedal steel) Chris Stafford, stando sempre attenti
a mantenere l’ambientazione il più rurale e schietta possibile, cominciando
dal galoppo per chitarra, armonica e banjo di Your Heart's a Big Tent,
per arrivare infine alla stessa Peculiar, Missouri, brano recitato
che narra di un attacco di panico dentro un supermercato Walmart, mentre
il protagonista dialoga con il fantasma del poeta Carl Sandburg.
L’attrattiva sta tutta qui, in questo incontro-scontro fra alto e basso,
fra popolare e intellettuale, sebbene Peculiar, Missouri, anche
per la nostra “distanza” linguistica suoni soprattutto come un disco di
pura american roots music: dal resoconto fieramente operaio di Vanlife,
che sobbalza sui ritmi di un vecchio honky tonk, alla festa paesana lungo
il border messicano di Este Mundo, dalla poesia musicata di Buffalo
Bill, solo voce e banjo, al rustico fiddle tune di The Down and
Back, passando per il valzer di Goodnight
Loving Trail (dal repertorio dell’amato Utah Phillips), non
c’è nulla che faccia pensare al presente. È nella voce del cantante che
si svela il segreto.