Sorta di piccola leggenda locale della comunità
di musicisti di Portland, in Oregon, Taylor Kingman si pone alla testa
dei suoi Holy Know-Nothings con l’intenzione di resuscitare un
robusto suono country elettrico a metà strada fra l’esperienza dei cosiddetti
“outlaw” degli anni Settanta e il piglio più operaio del roots rock nato
nella periferia americana. Onesto e diretto nelle liriche, che indagano
i fallimenti, gli abusi e le disillusioni della vita on the road
di un musicista, Kingman non cede alla tentazione del lamento anche quando
affronta gli stereotipi del genere (il dittico rappresentato da I Lost
My Beer e Bottom of the Bottle), semmai recupera un briciolo
dell’ironia di John Prine (Hell of a Time e Just the Right Amount
potrebbero arrivare direttamente da lì), la fa passare attraverso
il rock’n’roll alticcio degli Stones più bucolici (il pencolare di Serenity
Prayer) e ci aggiunge una vena western psichedelica nonché un atteggiamento
irruento da classico alternative country, che riporta alla migliore stagione
del genere (la stessa Incredible Heat Machine,
che sbuffa come ai tempi di Jason & The Scorchers).
Protagonista insieme al suo quartetto del “Santo Non So Nulla” delle serate
alla Laurelthirst Public House, piccolo club indipendente tra i più longevi
presenti in città, con una programmazione decisamente orientata al circuito
minore di Portland, Kingman approccia la materia roots con la fierezza
di un “working-class hero”, incidendo in pochi giorni il nuovo album The
Incredible Heat Machine nelle sperdute lande dell’Oregon, tutto
in presa diretta e facendo tesoro della vesatilità dei compagni, Jay Cobb
Anderson (chitarra e armonica), Lewi Longmire (basso, pedal steel, lap
steel, flugelhorn e mellotron), Sydney Nash (tastiere, basso, slide guitare
tromba) e Tyuler Thompson (batteria). Il risultato, molto vicino peraltro
al già apprezzabile Arguably OK del 2019 (che a questo punto andrebbe
recuperato), è un album freschissimo nella sua espressività, eppure senza
la pretesa di conquistare chissà quali nuovi orizzonti musicali, oscillando
fra ballate sornione e improvvisi scatti di elettricità, spesso tutto
concentrato nello stesso brano, come testimoniano l’apertura di Frankenstein,
e ancora Laid Down & Cried e She Wonders.
A irrompere sulla scena è di tanto in tanto la solista di Anderson, un
mordi e fuggi che sembra promettere scintille dal vivo, con ogni probabilità
la dimensione ideale nella quale godersi il tono impertinente del gruppo.
Definita in modo eccentrico dallo stesso Taylor Kingman come “psychedelic
doom boogie”, la musica di TK & The Holy Know-Nothings suona nient’altro
che l’ennesimo, godibile distillato di american music dal più sperduto
dei bar di provincia.