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JP Harris' Dreadful Wind & Rain
Don't You Marry No Railroad Man
[Free Dirt 2021]

Sulla rete: ilovehonkytonk.com

File Under: Appalachian roots

di Luca Volpe (05/07/2021)

Avevamo perso JP Harris per qualche anno. Il disco precedente, Sometimes Dogs Bark At Nothing, girava dalle parti del rock country leggero di metà anni Settanta, ma con questo Don’t You Marry No Railroad Man, il cantautore getta le basi di un futuro da stella del genere. Con il fido Chance McCoy (Old Crow Medicine Show) al fiddle e seconda voce, il vagabondo neotrovatore del country, ha chiesto all’eclettico Justin Francis (Deep Purple, Ray Willie Hubbard, Kenny Rogers, Fish) di registrare questo bel disco. Il banjo fretless (senza tasti) che si è costruito da solo, è uno stupendo strumento dal suono piacevole e multiforme, che accompagna la sua bella voce per dieci brevi brani. Harris è uno strano caso di discrasia fra immagine e musica: uomo dall’aspetto contemporaneo e talmente modaiolo da andare oltre il "truzzismo", suona una musica completamente opposta, con un atteggiamento da filologo.

Perchè bisogna arrivare subito al punto: questo non è un disco di composizioni originali, ma si tratta di interpetazioni di brani tradizionali e nel fare ciò vorrebbe essere uno di suoni, una caccia al miglior modo di attanagliare l’ascoltatore con il flusso di vibrazioni liquide, senza la solidità di ritornelli memorabili o invenzioni compositive, ma finendo con l’essere più salde della media. La scelta del suono s’è rivolta così ad un uomo dall’esperienza multiforme. Questo disco è un passo verso la tentazione rimossa nel nostro settore: la riscoperta del sottofondo celtico-britannico della tradizione statunitense. Non si tratta della raffinatezza ultimativa di Alan Stivell, della maestosa quiete dei Clannad o del contrappuntismo della Fairport Convention, ma di una strada personale che cerca di rallentare il bluegrass in una direzione quasi mistica. I brani sono brevi, segno dell’inizio di una sperimentazione che potrebbe produrre ben altro, una serie di meditazioni lungo una via mistica volta a rinfondere la strada arcaica in quella nuova.

Ed è così che la forza del melodismo armonico primordiale svetta suprema su House Carpenter, dove banjo, violino e voce si fondono nel costante flusso di una compattezza serena che non si sentiva da tempo, segnata dalla malinconica quiete dal testo struggente nella versione di Alan Lomax. Closer to the Mill (Going to California) mostra il volto più solare e fa da ponte fra le tradizioni, un campionario di piccoli trucchi d’arrangiamento. Le armonie vocali di Mole in the Ground sono impeccabili sul tessuto lento della canzone, mentre Country Blues a dispetto del nome è sempre malinconicamente Atlantica orientale e vicina alle nostre origini mediterranee, che va ricordato, è un’enorme insenatura dell’oceano. Old Bangum viene riletta in modo intimista senza essere al limite dell’apatia come molti hanno interpretato l’introspezione in questi decenni, mentre il procedimento di accentuare il dialogo fra strumenti e voci svetta su Barbry Ellen. Otto Wood mostra le origini del bluegrass, e pure la breve Last Chance è una piccola gemma in uno stupendo tesoro.


    


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