La cittadina è Boras, sessantamila
abitanti a nord di Stoccolma: ci trovate un importante sito industriale
del colosso delle telecomuncazioni Ericsson, una squadra di calcio titolata
a livello nazionale, ma dubito che abbiate mai sentito nominare di un
suo “illustre” musicista, Daniel Norgren. Wooh Dang è un
disco che sbuca dal nulla, con una copertina curiosa e un po’ naif, e
dieci tracce che potrebbero appartenere ai paesaggi dell’Americana più
rurale e immalinconita. Il sapore è quello di un folk dagli orizzonti
desertici, tra ballate insaporite di country rock che si colorano di fiammate
gospel, di struggente spleen per pianoforte e armonica, con i tormenti
di Neil Young nelle ossa e la stralunata poesia di Howe Gelb nella testa.
Tutto questo per affermare semplicemente che Daniel Norgren è uno di quei
piaceri che ancora riescono a materializzarsi scrivendo di musica ogni
giorno, e il suo Wooh Dang un piccolo, misconosciuto disco
che fareste bene a segnarvi in agenda se amate la desolazione del rock
agreste, le registrazioni che mantengono un profumo casalingo e impreciso,
i personaggi che appaiono subito fuori moda e fuori tempo. Norgren incide
dal 2007, vanta una discografia di tutto rispetto che tocca il numero
di otto album e un interesse circoscritto al giro dei festival indipendenti
europei, ma soprattutto un’idea artistica che prevede l’isolamento, l’autoproduzione
(sua la strampalata sigla della Superpuma records) e più in generale un’attitudine
al "fai da te" che non implica necessariamente bassa fedeltà
o peggio lavori raffazzonati. E basterebbe d’altronde questo gruzzolo
di canzoni, incise rigorosamente in analogico su sedici piste con una
parca sezione ritmica (l’amico di vecchia data Anders Grahn al basso)
e qualche imbeccata di Andreas Filipsson alle chitarre e banjo, per rendersene
conto.
Ciò che resta è manipolato da Norgren in persona, che introduce questo
ciclo di sradicate american song in terra svedese con il fluttuare psichedelico
di Blue Sky Moon, solo un diversivo strumentale, che tuttavia sembra
introdurre la colonna sonora di un film immaginario, prima che le note
diafane di basso e pianoforte aprano la melodia accorata e straziante
di The Flow, da qualche parte dentro
il buio “younghiano” di Tonight’s the Night. Attenzione però, perché Daniel
Norgren e soci sono pronti a deviare con i tremori vintage blues di di
Dandelion Time, sax e piano boogie
che impazza manco fossimo in una festicciola organizzata da Tom Waits.
The Power e The Glad sono piccoli inni di gioia e intimità
quotidiane per pianoforte, che si alternano con i commoventi sprazzi di
luce folk rock, un po’ settantesca e dai fremiti sudisti di Rolling
Rolling Rolling e Let Love Run the Game
(un omaggio nascosto al grande folksinger Jackson C Frank? Ci piace pensarlo...).
The Day That’s Just Begun, dolcissima melodia infantile abbozzata
al piano con contorno di soffi d’armonica, è ancora attraversata dal fantasma
di Neil Young, epoca After the Gold Rush potremmo azzardare, mentre il
finale scivola teneramente tra i rintocchi del walzer country di
When I Hold You in My Arms.Wooh Dang, la title track,
è un accenno di un minuto e ventidue secondi che serve far scorrere i
titoli di coda di un disco senza frastuoni, pretese di innovazione o presunte
rivoluzioni. Ci sono soltanto canzoni scritte con l’anima in mano, come
piace a noi.