Jerry Leger
Time Out for Tomorrow

[Latente recordings 2019]

jerryleger.com

File Under: canadian folk rocker

di Fabio Cerbone (19/11/2019)

Capello arruffato, sguardo serio e un po’ perso, Jerry Leger sembra appena sbucato da un locale dei bassifondi newyorkesi, anche se il vago colore “big pink” del muro alle sue spalle parla di provincia canadese e il suo disco è stato registrato a Toronto sotto la direzione artistica di Michael Timmins dei Cowboy Junkies. Il nome di Leger circola da qualche anno con una certa curiosità fra gli addetti ai lavori, ma non ha mai realmente sfondato al di fuori dei confini nazionali, se non proprio a cominciare dalla sua firma per la Latent recordings di Timmins nel 2014, inaugurata con la pubblicazione di Early Riser. Da lì sono nate le attenzioni della stampa inglese, cui è seguita un’antologia pensata per il solo mercato europeo (Too Broke To Die) e qualche parola spesa su riviste e blog per carbonari, come è di rigore per personaggi di questo stampo.

Stiamo parlando di un folksinger con un debole per le chitarre elettriche, ballate folk rock urbane che hanno l’accento dylaniano che scorre nelle vene, qualche guizzo pop alla Nick Lowe che si colora di melodie sixties e una costruzione solidissima del testo. L’esperienza, infatti, non manca al nostro Jerry Leger, in circolazione dal 2005, all’esordio appena ventenne, con nove album divisi fra carriera solista (in verità affiancata dai fedeli The Situation, con James McKie in bella vista alle chitarre) e collaborazioni alla guida dei progetti The Del Fi’s e The Bop Fi’s. L’ultimo dispaccio due stagioni fa, addirittura con un doppio album, Nonsense and Heartache, che cercava di imbrigliare tutte le anime di questo eclettico autore, mentre l’ultimo arrivato Time Out for Tomorrow sembra concentrarsi su un obiettivo più chiaro.

L’ispirazione arriva da un viaggio on the road, manco a dirlo, e dalla lettura degli scritti dello storico Ron Brown: affascinato da small town abbandonate e dalla periferia della sua Toronto, Jerry Leger spedisce dieci cartoline da un Canada assai poco oleografico, a partire da una Canvas of Gold che ondeggia su una melodia sorniona e una slide guitar più screziata sullo sfondo, descrivendo gli effetti della cosidettta gentrification sulle tasche già vuote degli artisti della sua città. Ballate elettriche spigliate (Justine, una Read Between the Lines che si gonfia tra organi e l’ennesima slide dal sapore beatlesiano, magari passando per George Harrison), limpidi accenti country rock (I Would, Tomorrow in My Mind, il violino e il vento freddo e rurale che soffia in Survived Like a Stone) e una certa trasandata svogliatezza nel canto, caratteristiche che uniscono l’amore per Dylan, il discepolo Tom Petty (la sbarazzina Tell a Lie, per esempio, che potrebbe anche uscire dalla penna dei Traveling Wilburys al completo) e tutto l’universo urbano di Lou Reed, al quale Leger dice apertamente di ispirarsi, folgorato sulla via di Coney Island Baby (la pianistica That Ain’t Here gira da quella parti).

Evitando l’effetto di un duplicato, il suo sonwgriting poggia su fondamenta solide e possiede sufficiente personalità per agganciarsi al treno di quel rock d’autore che è nostro cibo quotidiano.


    


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