Capello arruffato, sguardo
serio e un po’ perso, Jerry Leger sembra appena sbucato da un locale
dei bassifondi newyorkesi, anche se il vago colore “big pink” del muro
alle sue spalle parla di provincia canadese e il suo disco è stato registrato
a Toronto sotto la direzione artistica di Michael Timmins dei Cowboy
Junkies. Il nome di Leger circola da qualche anno con una certa curiosità
fra gli addetti ai lavori, ma non ha mai realmente sfondato al di fuori
dei confini nazionali, se non proprio a cominciare dalla sua firma per
la Latent recordings di Timmins nel 2014, inaugurata con la pubblicazione
di Early Riser. Da lì sono nate le attenzioni della stampa inglese,
cui è seguita un’antologia pensata per il solo mercato europeo (Too
Broke To Die) e qualche parola spesa su riviste e blog per carbonari,
come è di rigore per personaggi di questo stampo.
Stiamo parlando di un folksinger con un debole per le chitarre elettriche,
ballate folk rock urbane che hanno l’accento dylaniano che scorre nelle
vene, qualche guizzo pop alla Nick Lowe che si colora di melodie sixties
e una costruzione solidissima del testo. L’esperienza, infatti, non manca
al nostro Jerry Leger, in circolazione dal 2005, all’esordio appena ventenne,
con nove album divisi fra carriera solista (in verità affiancata dai fedeli
The Situation, con James McKie in bella vista alle chitarre) e collaborazioni
alla guida dei progetti The Del Fi’s e The Bop Fi’s. L’ultimo dispaccio
due stagioni fa, addirittura con un doppio album, Nonsense and Heartache,
che cercava di imbrigliare tutte le anime di questo eclettico autore,
mentre l’ultimo arrivato Time Out for Tomorrow sembra concentrarsi
su un obiettivo più chiaro.
L’ispirazione arriva da un viaggio on the road, manco a dirlo, e dalla
lettura degli scritti dello storico Ron Brown: affascinato da small town
abbandonate e dalla periferia della sua Toronto, Jerry Leger spedisce
dieci cartoline da un Canada assai poco oleografico, a partire da una
Canvas of Gold che ondeggia su una
melodia sorniona e una slide guitar più screziata sullo sfondo, descrivendo
gli effetti della cosidettta gentrification sulle tasche già vuote degli
artisti della sua città. Ballate elettriche spigliate (Justine,
una Read Between the Lines che si
gonfia tra organi e l’ennesima slide dal sapore beatlesiano, magari passando
per George Harrison), limpidi accenti country rock (I Would, Tomorrow
in My Mind, il violino e il vento freddo e rurale che soffia in
Survived Like a Stone) e una certa trasandata svogliatezza
nel canto, caratteristiche che uniscono l’amore per Dylan, il discepolo
Tom Petty (la sbarazzina Tell a Lie, per esempio, che potrebbe
anche uscire dalla penna dei Traveling Wilburys al completo) e tutto l’universo
urbano di Lou Reed, al quale Leger dice apertamente di ispirarsi, folgorato
sulla via di Coney Island Baby (la pianistica That Ain’t Here gira
da quella parti).
Evitando l’effetto di un duplicato, il suo sonwgriting poggia su fondamenta
solide e possiede sufficiente personalità per agganciarsi al treno di
quel rock d’autore che è nostro cibo quotidiano.