I rintocchi del banjo sono
minacciosi e gotici, il breve strumentale Act of Approach ci introduce
al terzo lavoro discografico di questo quartetto denominato The Dead
South, e tutto ci porterebbe a concludere che si tratti di una nuova
string band sudista, dal cuore profondo degli Stati Uniti. Niente di più
sbagliato, credetemi, essendo i ragazzi nativi di Regina, Saskatchewan,
regione canadese che ultimamente ci sta dando parecchie soddisfazioni
in termini musicali (Colter Wall, Kacy & Clayton...) e soprattutto riuscendo
a smentire i luoghi comuni che accostano naturalmente queste sonorità
ad alcune specifiche zone rurali degli States.
C’è il trucco però, visto che Sugar & Joy è stato prodotto
da Jimmy Nutt nei suoi studi personali di Sheffield, in Alabama, non lontano
dal leggendario epicentro dei Muscle Shoals. Qui non rinveniamo tuttavia
tracce di blues e “dolce musica soul”, semmai l’incedere acustico del
bluegrass, del country più agreste e del folk di derivazione appalachiana,
che rimanda direttamente al grande fiume della tradizione bianca della
Carter Family, di Bill Monroe o di oscuri personaggi come Dock Boggs.
The Dead South non seguono le regole alla lettera, e questo è un bene:
chitarra, banjo, mandolino e violoncello, nelle mani rispettivamente di
Nate Hilts (anche voce solista), Colton Crawford, Scott Pringle e Danny
Kenyon, rappresentano già una line up interessante, che esclude per esempio
il violino, non ricorre all’eccessivo sfoggio di tecnica, e neppure prevede
abbellimenti con pedal steel o altri richiami all’Americana, ma nello
scatenato passo di Blue Trash, nella scura
Diamond Ring (che ricorda un po’ certe atmosfere gotiche dei
Sixteen Horsepower) e ancora in Black Lung danno un saggio della
loro capacità di omaggiare il passato senza caderci dentro per il semplice
gusto dell’imitazione.
Questo è già un bel complimento, perché il rischio di affrontare stili
così codificati come il bluegrass è proprio quello di finire imprigionati
in una gabbia: The Dead South non suonano rivoluzionari, certo che no,
ma collezionano canzoni dure e disperate con un senso del tragico e del
comico al tempo stesso (Broken Cowboy,
lo sguaiato coro marinaio che accompagna Alabama People), evitando
di apparire oleografici, di citare il passato remoto, magari di immedesimarsi
in qualche cartolina da Grande Depressione ormai impressa soltanto sui
libri di storia. Lo spirito è rock anche se acustico in
Fat Little Killer Boy e nell’incalzante Snake Man, divisa
in due atti, e non si può fare a meno di accostarli, come lontani cugini
canadesi, ai più famosi Old Crow Medicine Show, più in generale a tutte
quelle bande di giovane folk rurale (penso anche ai misconosciuti Hackensaw
Boys) che hanno immesso nuova linfa in questi linguaggi.
Forti di un Juno award (gli oscar canadesi della musica) per il precedente
Illusion & Doubt (2016), spinti da qualche milione di visualizzazioni
sul web, come è d’uso oggi, The Dead South sono pronti al grande salto,
in attesa di partecipare alle prossime edizioni di festival come Red Rocks
e Glastonbury: non sembrano un fuoco di paglia, forse non aggiungono novità
al discorso acustico intorno allatradizione, ma hanno energia e gioventù
da offrire alla causa.