The Dead South
Sugar & Joy

[Six Shooter Records 2019]

thedeadsouth.com

File Under: country string band

di Davide Albini (13/11/2019)

I rintocchi del banjo sono minacciosi e gotici, il breve strumentale Act of Approach ci introduce al terzo lavoro discografico di questo quartetto denominato The Dead South, e tutto ci porterebbe a concludere che si tratti di una nuova string band sudista, dal cuore profondo degli Stati Uniti. Niente di più sbagliato, credetemi, essendo i ragazzi nativi di Regina, Saskatchewan, regione canadese che ultimamente ci sta dando parecchie soddisfazioni in termini musicali (Colter Wall, Kacy & Clayton...) e soprattutto riuscendo a smentire i luoghi comuni che accostano naturalmente queste sonorità ad alcune specifiche zone rurali degli States.

C’è il trucco però, visto che Sugar & Joy è stato prodotto da Jimmy Nutt nei suoi studi personali di Sheffield, in Alabama, non lontano dal leggendario epicentro dei Muscle Shoals. Qui non rinveniamo tuttavia tracce di blues e “dolce musica soul”, semmai l’incedere acustico del bluegrass, del country più agreste e del folk di derivazione appalachiana, che rimanda direttamente al grande fiume della tradizione bianca della Carter Family, di Bill Monroe o di oscuri personaggi come Dock Boggs. The Dead South non seguono le regole alla lettera, e questo è un bene: chitarra, banjo, mandolino e violoncello, nelle mani rispettivamente di Nate Hilts (anche voce solista), Colton Crawford, Scott Pringle e Danny Kenyon, rappresentano già una line up interessante, che esclude per esempio il violino, non ricorre all’eccessivo sfoggio di tecnica, e neppure prevede abbellimenti con pedal steel o altri richiami all’Americana, ma nello scatenato passo di Blue Trash, nella scura Diamond Ring (che ricorda un po’ certe atmosfere gotiche dei Sixteen Horsepower) e ancora in Black Lung danno un saggio della loro capacità di omaggiare il passato senza caderci dentro per il semplice gusto dell’imitazione.

Questo è già un bel complimento, perché il rischio di affrontare stili così codificati come il bluegrass è proprio quello di finire imprigionati in una gabbia: The Dead South non suonano rivoluzionari, certo che no, ma collezionano canzoni dure e disperate con un senso del tragico e del comico al tempo stesso (Broken Cowboy, lo sguaiato coro marinaio che accompagna Alabama People), evitando di apparire oleografici, di citare il passato remoto, magari di immedesimarsi in qualche cartolina da Grande Depressione ormai impressa soltanto sui libri di storia. Lo spirito è rock anche se acustico in Fat Little Killer Boy e nell’incalzante Snake Man, divisa in due atti, e non si può fare a meno di accostarli, come lontani cugini canadesi, ai più famosi Old Crow Medicine Show, più in generale a tutte quelle bande di giovane folk rurale (penso anche ai misconosciuti Hackensaw Boys) che hanno immesso nuova linfa in questi linguaggi.

Forti di un Juno award (gli oscar canadesi della musica) per il precedente Illusion & Doubt (2016), spinti da qualche milione di visualizzazioni sul web, come è d’uso oggi, The Dead South sono pronti al grande salto, in attesa di partecipare alle prossime edizioni di festival come Red Rocks e Glastonbury: non sembrano un fuoco di paglia, forse non aggiungono novità al discorso acustico intorno allatradizione, ma hanno energia e gioventù da offrire alla causa.


    


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