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honky tonk ambassador di
Domenico Grio (14/11/2018)
Scorgendo
le note biografiche di JP Harris si rischia di azionare in automatico una
certa cautela critica, prodotta dall'inevitabile diffidenza verso tutte quelle
stereotipate vicende che ruotano intorno alla figura dei cantastorie agresti,
affascinanti, dannati e ribelli. Il busker adolescente in rotta con la famiglia
e con il mondo, che fugge di casa, che salta sui treni in corsa, che fa mille
lavori e che, infine, realizza il suo piccolo sogno americano, è francamente un'immagine
talmente classica che non può non lasciare qualche dubbio circa la sua piena attinenza
alla realtà. Ma se un occhio smaliziato tende a cogliere la parte romanzata della
storia, è pur vero che la spinta emotiva che genera l'impulso narrativo delle
canzoni di JP, è quanto di più tangibile ed autentico si possa rintracciare.
Sono
i brani, più di qualsiasi clichè e più dei tatuaggi sfoggiati in copertina, a
fornire testimonianza delle crude esperienze di vita di questo musicista in perenne
viaggio, divenuto adulto e cresciuto artisticamente per strada, figlio dell'America
rurale e discepolo dei profeti del country. Roots and Highway (giusto per
parafrasare il nostro luogo del cuore) a segnare il suo avventuroso cammino che
si snoda dalla natia Montgomery (Alabama) fino ad abbracciare tutti gli altri
stati del sud, JP ci tiene piuttosto a rivendicare proprio la genuinità del suo
percorso, al di fuori di un "discorso di marketing annacquato", come lui stesso
ama sottolineare. Sometimes Dogs Bark at Nothing è il suo lavoro
più maturo, sia per la qualità dei brani, sia per l'importante collaborazione
con Morgan Jahnig (Old Crow Medicine Show) che ci mette parecchio del suo in fase
di produzione. Arriva dopo quattro anni dal precedente Home
Is Where the Hurt Is ed ha richiesto un lungo lavoro di editing, al
quale però ha fatto da contraltare un approccio in studio più immediato e molto
spontaneo.
Si parte da JP's Florida Blues,
un boogie country-oriented, apparentemente grezzo che potrebbe rimandare, per
tasso energetico, al miglior George Thorogood, si prosegue con Lady in the
Sportlight, brano acustico che narra delle disparità di genere anche nell'ambito
dell'industria discografica, per poi passare a When I
Quit Drinking che, come Long Ways Back, si rifà piuttosto al
songbook di Buck Owens o, più banalmente, alla "Music For All Occasions" dei Mavericks.
Ballate crepuscolari si alternano a honky tonk pacati o decisamente più ruvidi,
questo Sometimes Dogs Bark at Nothing è in realtà una sorta di compendio della
tradizione country e i riferimenti a stili ed interpreti si sprecano. Impossibile
non pensare anche ad Hank Williams o Merle Haggard, piuttosto che Townes Van Zandt
o Waylon Jennings o magari Lyle Lovett e John Hiatt.
E la forza di questo
disco, al di là dell'ottimo livello compositivo delle canzoni, è proprio la varietà
di tinte, questo intrigante cambio di sequenze, scene ed atmosfere, il tutto condito
da una raffinata semplicità espressiva, dall'essenzialità delle forme e da un
misurato sguardo introspettivo, che prova a spazzare via le sofferenze del recente
passato (JP pare aver superato da poco un serio problema di abuso d'alcol) ed
a consegnare un uomo che ha evidentemente smesso di avere paura di salire su un
palco e mostrarsi con la "sua borsa sporca, la sua canottiera e suoi stivali".